Anteprima

Bodycount

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a cura di andymonza

Se già agli albori della corrente generazione il contesto degli sparatutto in prima persona non rappresentava un buon punto di partenza per prodotti a basso budget, l’autunno 2011 si profila come un vero e proprio girone dantesco. Tutti i riflettori sono infatti puntati sulla sfida tra i due colossi del videogioco dei nostri tempi, Activision ed Electronic Arts, i cui rispettivi shooter si sfideranno in una durissima battaglia all’ultima copia venduta. Un periodo davvero travagliato per il rilascio di un prodotto sviluppato in relativa sordina, da uno studio piccolo e senza troppe pretese. Ma del resto, la lavorazione di Bodycount non è mai avanzata sotto una buona stella, tra abbandoni da parte dei pochi nomi conosciuti all’interno del team (qualcuno ricorda il buon Black?), sforamenti di budget, ritardi e rischi di cancellazione. Un percorso travagliato, le cui cicatrici appaiono evidenti nella versione di prova messaci a disposizione da Namco Bandai, grazie alla quale abbiamo avuto modo di provare con mano tre missioni della campagna principale.

SparatuttoSin dagli albori del progetto, Bodycount ha deciso di battere un sentiero differente da quello intrapreso dai big del genere, facendo della differenziazione e dell’originalità i suoi assi nella manica. L’enfasi del progetto è infatti tutta concentrata sul feedback delle armi e sulla distruttibilità degli ambienti, una sorta di sublimazione del concetto puro di “sparatutto”. Nobili intenti, quindi, affiancati ad una contestualizzazione eterea ed oggettivamente poco incisiva e ad un design dei livelli molto asciutto. Non vi saranno infatti molte spiegazioni ad accompagnare l’innominato protagonista, al soldo di un’organizzazione nota come The Network e contrapposto ai militari totalitaristi della Target: ogni livello presenterà un obbiettivo ben specifico, che potrà andare dall’eliminazione di un ufficiale nemico al recupero di Intelligence, e l’unico ostacolo sarà rappresentato dalle decine di avversari che vi si pareranno davanti. Grazie alla voce guida di Ashley, che vi parlerà via radio, ed alle indicazioni a schermo, il prossimo obbiettivo sarà sempre ben delineato, lasciandovi il solo compito di tagliare attraverso le difese nemiche come un coltello nel burro. Un compito che sarà reso facile dalla totale “ignoranza” dell’arsenale a disposizione, tanto vario nell’offerta quanto “piatto” nel feedback restituito: mai troppo rinculo, che si imbracci un fucile d’assalto piuttosto che uno a pallettoni. Stessa filosofia caratterizza l’incedere: ormai abituati a sparatutto dalla forte componente tattica (o perlomeno dalle caratteristiche uniche, vedi Bulletstorm) ci siamo inizialmente approcciati a Bodycount cercando di sfruttare le coperture ambientali, controllando gli angoli, cercando di studiare i percorsi nemici ed aggirarli. Tutto inutile, tentativi ben presto sacrificati sull’altare dello sparatutto, ma proprio tutto, a quello che si muove ed a quello che sta fermo, anzi immobile, a farsi sparare appunto. Ad avvilire ulteriormente il gameplay ci pensano due fattori, il primo legato ad un’evidente mancanza di cura, il secondo semplicemente inspiegabile. Cominciamo dal design dei livelli, che sembra riportare gli orologi a diversi anni fa: i percorsi sono banali, gli aggiramenti ovvi e prevedibili, le coperture poche e mal dissimulate (nonché inutili). L’unico punto a favore rimane la buona distruttibilità, che permette di sfondare le pareti più deboli a creare il proprio sentiero all’interno delle ambientazioni: peccato che i lati positivi di tale chance vengano meno di fronte alle carenze dell’intelligenza artificiale, del tutto impreparata ad un giocatore libero dalle costrizioni di un level design lineare. Sconcertante è invece il fatto che la mira dall’ironsight “inchiodi” a terra il giocatore: sin quando il grilletto sinistro sarà premuto non potrete spostarvi, rendendo molto più facile gettarsi in mezzo alla mischia ignorando del tutto la possibilità di una mira più precisa.

VirtualityQualcuno si ricorderà senza dubbio di Virtuality, filmaccio come solo gli anni ’90 ne sapevano regalare: per chi lo conoscesse, Bodycount ce l’ha in qualche modo ricordato. E’ la generale ineleganza e rozzezza del design, ed il continuo ammiccamento alla “realtà virtuale” come veniva concepita una quindicina d’anni fa (vedasi la fortezza sotterranea, un dedalo di corridoi tutti uguali, di porte che compaiono dal nulla, di nemici tanto squadrati da apparire a malapena umani, o i globi luminosi lasciati dai cadaveri, sopra le righe e poco amalgamati al contesto). Non è ancora chiaro se qualche aspetto della trama si preoccuperà di giustificare queste scelte di design (che si tratti di una simulazione?) oppure no, ma in ogni caso ci troviamo di fronte ad un esperimento stilistico evidentemente fuori tempo e poco riuscito.

– Distruttibilità degli ambienti

Bodycount lascia perplessi come pochi altri prodotti. Etereo, visivamente inefficace, spoglio e privo di qualsiasi aspetto distintivo, il lavoro di Guildford Studio rischia di rimanere schiacciato dai big, e non come una perla dimenticata, bensì come un prodotto che difficilmente riuscirà a trovare un suo pubblico. Attendiamo naturalmente una build definitiva e completa per attribuire una valutazione conclusiva, seppure le speranze per un prodotto sufficiente siano poche. Rimanete con noi per il verdetto, a presto su queste pagine.