I The Game Awards 2023 hanno celebrato i giochi ma non i loro sviluppatori

I The Game Awards ci ribadiscono di voler celebrare i videogiochi, ma hanno sacrificato proprio il tempo concesso agli sviluppatori sul palco.

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a cura di Stefania Sperandio

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30 secondi.

Immaginate di aver vinto il premio di gioco dell'anno, di volerlo dedicare ai membri del vostro team che sono prematuramente scomparsi durante i lavori, e avere a disposizione 30 secondi per farlo.

Immaginate di avere sul proprio palco una mente come Eiji Aonuma, che ritira il premio vinto da The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, e dargli solo 30 sfuggenti secondi, con interprete al seguito.

E immaginate chi ha vinto un premio e i 30 secondi nemmeno li ha avuti: categorie come Miglior indie, miglior colonna sonora, miglior art direction premiate in un elenco, come una lista della spesa da smaltire.

Benvenuti ai The Game Awards 2023, dove vogliamo celebrare i videogiochi, Geoff Keighley in apertura ce lo dice ogni anno. Di chi li crea, però, sembra che in fondo in fondo non importi granché.

Un panino con dentro tutto

Parto con una piccola premessa: da qualche tempo, nonostante il mio lavoro (anzi, proprio per il mio lavoro), sono sempre più indisposta nei confronti degli show in cui si susseguono raffiche di trailer e annunci di annunci annunciati, teatro spesso equamente diviso tra i rilanci degli egomaniaci che vorrebbero si parlasse di loro-che-commentano-i-videogiochi e non dei videogiochi e di strategie di marketing fumose create con lo stampino.

Per questo mi avvicino ogni anno ai The Game Awards con un'abbondante dose di compostezza. Ne servirebbe anche una piuttosto grossa di caffè, considerando l'orario non proprio felice per l'Europa, ma per quello in qualche modo ci si adatta.

A me interessano i videogame, quello che c'è dietro, e sono indifferente – se non insofferente – alla patina di paillettes, paroloni e fiocchetti che invece gli si piazza davanti, quella che poi tenta di impacchettare l'ennesimo gioco che hai già giocato venti volte, ma con nomi sempre diversi, come l'imperdibile must da portare a casa a 80 euro. Trattandosi di una riflessione personale, lo sottolineo.

L'evento, che ogni anno riunisce alcuni dei nomi più importanti dell'industria e che dice di voler celebrare il videogioco, è indubbiamente molto costoso da mettere insieme. E allora inutile raccontarsi le favole: servono gli sponsor, servono tanti passaggi promozionali di prodotti diversi, per equilibrare entrate e uscite. Solo che, mai come quest'anno, si è visto che la cosa finisce per squilibrare l'evento in sé.

Non riesco a fare a meno di pensare a un Sam Lake emozionato che deve lasciare il palco mentre ringrazia, perché dobbiamo passare al prossimo spot.
Dare 30 secondi per parlare a Vincke che ringrazia il suo team, sviluppatori deceduti compresi, per avere lo spazio per l'ennesimo siparietto pleonastico a tema Muppets – senza nemmeno scomodare altri esempi più o meno verbosi dove quantomeno, però, si parlava di videogiochi senza perdersi in battute dalla brillantezza discutibile – ha qualcosa di surreale.

Con l'attuale equilibrio tra show, annunci e premiazione, quello che ne viene fuori è che un equilibrio non c'è. E se ci sono diversi annunci che (ma questo è soggettivo) possono aver scaldato il cuore degli appassionati, tra i ritorni di SEGA, Kojima con OD che si tuffa nel mondo Xbox, Monster Hunter Wilds o lo slancio di Arkane Lyon su Marvel's Blade, non riesco a fare a meno di pensare a Sam Lake emozionato che viene tacitamente scacciato dal palco perché dobbiamo passare al prossimo spot.

E so che probabilmente il mio è un discorso idealista, stupidamente empatico e umano mentre qui è di business che stiamo parlando. Ma, proprio perché è di business che stiamo parlando, bisogna ricordare che il 2023 è stato un anno splendido per i videogiocatori e tremendo per chi quei videogiochi li crea (abbiamo avuto un numero di licenziamenti impressionate, per chi se lo fosse perso). Un anno di giochi bellissimi creati da un'industria che cigola.

E di questo non solo ai The Game Awards non si è fatto menzione, nemmeno con una minima parola di vicinanza – come in una specie di isola felice che ha infilato qualche duna di polvere sotto il tappeto – ma gli sviluppatori, le loro emozioni, le loro parole sono stati l'unica parte ritenuta sacrificabile in uno show dai tempi elefantiaci. Non una novità, per quest'industria, che gli sviluppatori siano in qualche modo la parte sacrificabile.

Così eccoci, dall'1.30 nostrana alle 5.04, mi suggeriscono gli orari del mio recap su queste pagine, a saltellare tra trailer che dopo un po' non sai più se sono spot dello stacco pubblicitario o world premiere. Tre ore e mezza dove infilare di tutto, come in quei panini a dodici piani dove hai messo così tanti ingredienti che alla fine quando lo mordi non sei più sicura di cosa sappia.

Per provare a unire tutto, a dargli un senso di coesione che leghi quei sapori mescolati, allora magari il panino lo affoghi nella salsa. Qui la salsa è ribadire che si vogliono celebrare i videogiochi – e in un certo senso lo si fa: come business e industria produttiva ma non come medium, così.

Please wrap it up

Per quei (pochi) premi che sono riusciti a essere assegnati sul palco e non su un elenco puntato in sovrimpressione, gli sviluppatori che accettavano l'Award avevano davanti un countdown.

Una volta esaurito, la musica iniziava a salire per "scacciarli" gentilmente e provare a non far saltare i tempi della trasmissione come successo lo scorso anno, per via del lungo intervento di Christopher Judge (quando accettò il premio per la sua interpretazione di Kratos in God of War: Ragnarok).

Il gobbo con il countdown, a quel punto, mostrava un laconico please wrap it up, un modo più o meno televisivo e professionale di dire «falla breve», per indicare allo sviluppatore sul palco che era il momento di andarsene.

Le immagini che arrivano da chi era in platea, con perfino Aonuma costretto a vedersi sbattuto in faccia "please wrap it up", dimostrano come lo show costruito in questo modo abbia un enorme controsenso, perché a essere di spalla, con gli sviluppatori, sono proprio i premi.

Se la clip relativa ad Aonuma non rende l'idea, forse quella che mostra Vincke che accetta il GOTY per Baldur's Gate III sarà più esplicativa e potete vederla di seguito.

È surreale pensare che Simu Liu – nell'ennesima dimostrazione dell'industria videoludica che soffre di crisi di inferiorità rispetto al cinema e quindi invita le star del cinema come a farsi dire "guardate, siamo davvero importanti, ci sono gli attori, i VIP veri!" – abbia avuto più tempo microfono alla mano degli sviluppatori che hanno portato a casa i premi. Per farci un po' di battute sui suoi piedi e non ricordo cos'altro, oltretutto.

Alcuni ospiti del cinema, ennesima dimostrazione del senso di inferiorità rispetto alla cosiddetta settima arte, hanno avuto più tempo microfono alla mano degli sviluppatori vincitori.
È ovvio che lo show debba anche essere show, appunto. Avere quattro ore di soli discorsi di sviluppatori che parlano e parlano sarebbe barboso per la stragrande maggioranza del pubblico, ma penso si possa trovare un equilibrio migliore tra i monologhi di accettazione del premio e la scacciata dal palco dopo 30 secondi. 

I videogiochi, senza le persone che da quel palco sono state gentilmente spinte via il prima possibile, e i team che rappresentano, non esistono. E allora il modo di celebrarli non può, semplicemente, essere questo. Anche perché lo show, ribadisco, ha comunque avuto una durata esagerata e ha sforato le 5.00.

Per il 2024, quando i The Game Awards festeggeranno i loro dieci anni, la speranza è che si possa trovare un equilibrio migliore.

La kermesse di Geoff Keighley è ormai quella principale degli annunci annuali, in sostituzione al vecchio e decomposto E3, e deve capire cosa vuole essere: un palco per le novità declinate in chiave hype, un grande raduno delle menti in vetrina dell'industria, lo scenario dove si premiano i giochi migliori dell'anno o un ibrido che continua a correre tra tutte queste cose con il fiatone, non riuscendo a valorizzarne pienamente nessuna.