Videogioco e cinema: reinventare e tradurre motion picture con l'interazione

Il videogioco e il cinema vanno a braccetto perché entrambi si basano sulle cosiddette "motion picture". Oggi, in un momento in cui i tie-in dei videogiochi sono sempre di più, e sentiamo sempre più parlare di videogioco cinematografico, quali sono le loro intersezioni e i loro punti di contatto? Quali le peculiarità che viaggiano e continueranno a viaggiare su rette parallele?

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a cura di Stefania Sperandio

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Quando frequentai il laboratorio di regia durante i corsi della laurea magistrale, rimasi colpita dal testo didattico scelto dal docente: il libro si chiamava, semplicemente, "Fuck the continuity". Era un volume che, nelle pagine iniziali, spiegava il suo titolo: faceva sapere allo studente che, per sviluppare uno stile proprio, è importante sapere quali sono le regole da infrangere.

Prima di poter rompere la "continuity" (ossia, la coerenza tra un'inquadratura e l'altra), insomma, bisogna sapere cosa costituisce la "continuity". Prima di allontanarsi dalla norma della grammatica cinematografica per darne la propria interpretazione, bisogna conoscerla. E conoscerla bene. Come potresti avere uno stile sopra le righe senza sapere quali sono le righe?

Ed è esattamente quello che hanno fatto i videogiochi. In quanto mezzo di comunicazione che si muove per motion pictures, questi ultimi hanno ereditato tanto dal mondo del cinema. Possiamo definirla rimediazione – il prendere delle forme dal linguaggio e dagli schemi di un altro medium, per reinterpretarle nel proprio.

Sono ormai trascorsi tanti anni dalle prime volte in cui abbiamo sentito parlare di videogioco cinematografico e, da allora, il gaming è diventato tantissimo altro: è sempre più narrativo, sempre più veicolo di messaggi, sempre più interessato a mescolare interazione e storytelling. Ha imparato a guardare anche alla serialità televisiva e ha invertito la tendenza dei tie-in, con il piccolo e il grande schermo invasi da produzioni dedicate a IP nate nel mondo dei videogiochi, e non più solo il contrario.

Eppure, il videogioco è qualcosa di completamente diverso dal cinema, non è sovrapponibile alla settima arte: l'interazione lo rende tale. Come vive, tutt'oggi, questa mutua contaminazione? Quanto il videogioco deve al cinema e quanto, inaspettatamente, il cinema deve invece al videogioco?

Abbiamo deciso di approfondire l'argomento con la dott.ssa Fabrizia Malgieri, caporedattrice della divisione italiana di GameReactor, redattrice gaming per Corriere, dottoressa di ricerca e assegnista di ricerca sul tema "Genere nei generi: la rappresentazione femminile nelle serie TV e nei videogiochi di genere". Una vita tra i videogame, i film e l'ambiente accademico, insomma, confrontandoci con la quale vogliamo farci aprire la porta verso nuove meraviglie: le intersezioni tra il cinema e il videogioco.

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Il videogioco non copia il cinema: lo traduce

Ci sono diversi esempi che ricollegano un certo modo di fare videogiochi a una grammatica espressiva che viene dal cinema. Pensiamo a un autore come Hideo Kojima che, da tutta la sua carriera, parla soprattutto di film che ispirano le sue opere, piuttosto che di altri giochi. Pensiamo anche al paradigma trovato da David Cage, per alcuni reo di creare film interattivi.

Da quando i videogiochi si sono aperti alla tridimensionalità, con la possibilità di utilizzare liberamente l'inquadratura, ecco che hanno adottato le logiche del cinema: un piano sequenza, un campo-controcampo, una rottura dei 180° funzionano allo stesso identico modo sia che la regia sia cinematografica, sia che sia videoludica. Ma è giusto pensare che i videogiochi si siano limitati a mangiare a una tavola già apparecchiata dal cinema?

«Qualsiasi forma d’arte o tecnologia, dalla pittura al cinema fino al videogioco, nasce da un’esigenza umana molto precisa: imitare la realtà. Lo ha fatto la fotografia, attingendo dai concetti di prospettiva dell’arte; lo ha fatto il cinema, attingendo a sua volta da fotografia e arte; e così via» mi spiega Malgieri, a tal proposito.

Ma l'idea che il videogioco abbia "copiato" il cinema per "elevarsi" le sta stretta. Nelle parole della ricercatrice:

«Spesso sento dire che il videogioco – soprattutto dagli inizi degli anni Novanta, quando i nuovi motori e le tecnologie dietro gli stessi hanno cominciato ad evolversi – abbia 'copiato' il proprio linguaggio dal cinema per 'elevarsi', per essere percepito come un prodotto che vada oltre al puro e semplice intrattenimento. Per diventare più 'realistico', appunto.

Se, in parte, questo può essere vero quanto meno agli inizi – intendo dire, è vero che il videogioco si è trovato una tavola apparecchiata, come dici tu, e non ha inventato nulla da un punto di vista puramente registico o visivo – è altrettanto vero che il medium videoludico ha contribuito a forgiare a sua volta un suo linguaggio nel tempo».

A tal proposito, Malgieri ha degli esempi molto interessanti, perché non vengono direttamente da quei videogiochi che, oggi definiremmo "cinematografici". Arrivano, anzi, da una casa storica e attaccata alle sue origini ludiche come Nintendo:

«Pensiamo alla sequenza di apertura di Super Mario 64 (potete vederla a questo link, ndr): Lakitu ha una telecamera attaccata ad una canna da pesca che, poco dopo alcuni volteggi nel mondo di gioco, diventa il 'punto di vista' del giocatore, l’utente è alle spalle di Mario. È uno dei primi esempi in cui il giocatore prende il controllo della telecamera all’interno di un videogioco, non è più 'costretto' da un punto di vista di un autore terzo, e ci viene detto in modo esplicito. 'As a seasoned cameramen, we’ll be shooting from the recommended angle, but YOU can change the camera angle by pressing C Buttons'» ricorda Fabrizia.

Si tratta di un esempio che mette in evidenza l'aspetto cardine che divide il videogioco e il cinema: la possibilità di interagire. Il videogioco avrà anche adottato le logiche filmiche, ma più che altro le ha adattate – perché doveva inserirle nei suoi canoni ricordandosi dell'interazione.

Come ha spiegato Malgieri durante la nostra chiacchierata:

«E qui arriviamo all’aspetto ovvio, ma intrinseco, del videogioco: l’interattività. Per quanto il videogioco abbia attinto dal linguaggio cinematografico per essere visivamente più gradevole e realistico, ha sempre dovuto fare i conti con l’interazione con l’utente: e per tale ragione, non credo che i videogiochi si siano limitati a 'copiare' un linguaggio pre-esistente. Al contrario, hanno dovuto ripensare quel linguaggio e tradurlo affinché potesse essere 'controllabile' dal giocatore, da cui prescinde l’esperienza videoludica in quanto tale».

Se il videogioco guarda al cinema, di che cinema parliamo?

Nessuno, insomma, oserebbe negare l'evidente eredità che il cinema ha consegnato nelle mani del videogioco, trattandosi di due mezzi che si mostrano all'utente per immagini, interattivo uno e più passivo l'altro.

La domanda che sorge spontanea, allora, è capire quale sia il tipo di cinema che ha influenzato di più il videogioco. Gli amanti della settima arte sanno bene quanto di fronte ad autori diversi si possano scoprire scuole diverse, stili diversi, riconoscibili e unici. Quale potrebbe essere quello che, più di tutti, ha messo lo zampino nei videogiochi?

In merito, Malgieri ha molti nomi da fare e ha le idee piuttosto chiare:

«Indubbiamente, il cinema a cui molti videogiochi si ispirano è soprattutto quello di stampo occidentale. Quentin Tarantino, Sergio Leone, Stanley Kubrick, David Lynch, Christopher Nolan, Martin Scorsese, Steven Spielberg, ma anche Michael Bay o Tim Burton, sono solo alcuni dei nomi più popolari da cui i game director attingono idee per le loro produzioni, talvolta anche con risultati impeccabili».

Attenzione, però, perché considerando quanto anche i videogiochi abbiano trovato direzioni diversificate – anche qui è valido il concetto di "gioco che vai, scuola che trovi" – sarebbe un errore limitare tutto alla sola scuola occidentale del cinema.

«Tra coloro che hanno provato a fare qualcosa di diverso, non solo in termini di direzione artistica ma anche sul piano registico in senso stretto, mi viene in mente Hideki Kamiya che con prodotti come Okami o The Wonderful 101 ha voluto onorare le sue origini nipponiche, attingendo per il primo dalle illustrazioni giapponesi ad acquarello e per il secondo dagli anime con i robottoni».

Se i giocatori più giovani che leggono le nostre pagine potrebbero non aver toccato con mano né l'uno né l'altro gioco (molto male! ndr), è probabile che abbiano più familiarità con un nome recente come quello di Ghost of Tsushima, dove l'ispirazione è palese. Anche la scuola cinematografica giapponese ha trovato la sua via nel linguaggio videoludico, mi spiega Malgieri. E le produzioni indie sono come sempre tra le più vivaci, quando si tratta di sperimentare su sentieri non ancora battuti:

«Poi, ovviamente, c’è Ghost of Tsushima, che è un omaggio neanche tanto velato al cinema samurai di Akira Kurosawa; o ancora Catherine, che mi ha ricordato tantissimo il cinema di animazione di Satoshi Kon e il suo Paprika – Sognando un sogno.

Diciamo che, in linea di massima, il videogioco mainstream punta soprattutto al cinema hollywoodiano, con qualche piccola sporadica eccezione. Ma grazie ad una sempre più prorompente scena indie, da questo punto di vista, molte cose stanno cambiando: e dico anche per fortuna, visto che c’è tanto cinema e tanta creatività registica da sperimentare nel mondo dei videogiochi».

La regia nel videogioco – fatta bene

Con tutto questo parlare di autorialità, di influenze, di regie da un capo all'altro del pianeta, la domanda mi si è posta spontanea. Dal punto di vista di una studiosa di entrambi i media, quali scelte registiche nei videogiochi sono risultate davvero d'impatto? Quali sono rimaste particolarmente impresse? Fabrizia ha per me un po' di nomi di quelli che fanno bene al cuore dei videogiocatori.

«È una domanda complessa a cui è davvero difficile rispondere per una serie di ragioni. Da un punto di vista accademico, oltre al caso di Super Mario 64, ci sono un paio di cutscene, in particolare, che a distanza di tempo, continuano ad essere intriganti» mi ha spiegato, prima di tutto.

«La prima è senza dubbio la sequenza di apertura di Final Fantasy VII, con quell’eagle shot (ripresa a volo d’aquila) che si conclude con un primo piano in dissolvenza di Aerith, che guarda in macchina e sfonda quella che viene definita 'quarta parete', creando un legame indissolubile con il giocatore. E poi di nuovo l’eagle shot su Midgar, che è cadenzato da uno splendido montaggio alternato in cui vediamo le rotaie del treno su cui viaggiano Cloud Strife e compagni prima dell’attacco al Reattore Mako. Era il 1997, appena qualche mese dopo il lancio di Super Mario 64, e il videogioco aveva già assimilato con voracità il linguaggio filmico, lo aveva divorato e fatto suo».

Se il nome di Final Fantasy VII vi ha migliorato la giornata, aspettate di sentire anche i successivi, perché sono tanti i videogiochi che fanno un uso straordinario delle immagini, delle inquadrature e della loro concatenazione – e di cui magari, con un occhio non allenato, non ci si potrebbe accorgere.

«E poi c’è la sequenza iniziale di Metal Gear Solid 4, girata con quella camera a mano che ci restituisce quella sensazione di presenza al fianco di Snake. Non siamo solo spettatori: siamo dentro quel momento, magari nascosti sotto ad un camion per sfuggire all’attacco; alle spalle di Snake, osservando – o magari usando lui come scudo – per (non) vedere l’orrore che si consuma tra le strade di una città polverosa del Medio Oriente» ricorda Malgieri, citando il gioco del 2008.

Ma ci sono anche due esempi molto più recenti, più freschi nella memoria di tutti i videogiocatori: The Last of Us - Parte IIRed Dead Redemption 2, acclamati in entrambi i casi dalla critica.

Come mi ricorda la collega e studiosa:

«Tra le mie cutscene preferite, tra le più recenti che mi vengono in mente, direi la sequenza in flashback di The Last of Us: Parte II in cui Joel e Ellie sono all’interno del parco scientifico, ed entrano nella capsula spaziale.

Il legame che si crea tra i due personaggi è emozionante, palpabile, unico: soprattutto se riletto alla luce dei tragici avvenimenti del secondo capitolo, è uno dei momenti che ha in qualche modo lenito le profonde ferite che quel gioco mi ha inflitto quando ci ho giocato la prima volta. Nella sua semplicità, resta uno degli esempi più toccanti che il videogioco mainstream ci ha regalato fino ad oggi».

In merito all'opera di Rockstar Games, invece, il retrogusto Tarantiniano non passa inosservato sotto gli occhi esperti di Fabrizia:

«E poi, da amante di Tarantino, ho adorato la sequenza iniziale di Red Redemption 2, costruita letteralmente a immagine e somiglianza rispetto alla scena di apertura di The Hatetful 8. Una volta, per curiosità e un po’ per gioco, ho provato a fare un piccolo montaggio usando la cutscene di apertura di RDR2, utilizzando il tema di The Hateful 8 (L'Ultima Diligenza di Red Rock) di Ennio Morricone. Ho ancora i brividi».

I videogiochi e la "mania" del piano sequenza

Tutto questo parlare di videogiochi e regie mi ha fatto venire in mente la recente smania videoludica per il piano sequenza. Considerata una tecnica particolarmente d'autore all'interno del panorama filmico, consiste in un lungo take privo di tagli, in cui sono i movimenti di camera a seguire l'azione e i protagonisti – senza che l'inquadratura salti da una parte all'altra, nemmeno per i dialoghi, spesso girati usando inquadrature corrispondenti.

In Metal Gear Solid V, ad esempio, Hideo Kojima non nascose il suo orgoglio per essere riuscito a girare il gioco come un unico piano sequenza, ma in quel caso – anche in virtù del ruolo del protagonista, Venom Snake – ebbi più che altro la sensazione di un esercizio di stile, piuttosto che di una scelta fatta valutando il miglior modo possibile di portare sullo schermo quella storia.

Più di recente, anche Cory Barlog in God of War ha dato nuova linfa al piano sequenza videoludico, e anche il successivo God of War Ragnarok seguirà la stessa via.

Mi sono allora domandata il perché di questa voglia di un girato privo di interruzioni, idealmente molto difficile da mettere in scena. La risposta di Malgieri è particolarmente interessante.

«Pensiamo sempre al piano sequenza come qualcosa di complesso, quando in realtà affonda le sue radici già nel cinema classico, dove all’epoca esistevano veri e propri limiti tecnici per realizzarlo. Alfred Hitchcock gira nel 1948 Nodo alla gola, tra i primi esempi cinematografici costruiti quasi interamente in piano sequenza (non proprio, come si vedrà, ma questo è dovuto ai limiti derivanti dalla durata della pellicola), al punto che lo stesso set del film vantava marchingegni e pareti mobili per permettere alla macchina da presa di muoversi agilmente e seguire i vari personaggi in scena» mi racconta, sottolineando come nel cinema ci fosse anche la difficoltà dei mezzi fisici, nell'esecuzione del piano sequenza. Una difficoltà a cui i videogiochi e i loro ambienti virtuali non vanno incontro.

A tal proposito, citando God of WarMetal Gear Solid V, la ricercatrice sottolinea:

«God of War e Metal Gear Solid V non hanno inventato nulla o non hanno riscontrato grandi ostacoli, derivanti dal fatto che i motori grafici contemporanei permettono con grande agilità di lanciarsi in tecniche di ripresa più complesse, anche grazie alla virtualità della camera stessa. L’ho trovata un’evoluzione naturale all’interno del videogioco, che dimostra quanto – rispetto ai primi anni Novanta, quando si è iniziato ad avere un occhio filmico per i videogiochi – il limite era imposto solo ed esclusivamente dal tipo di tecnologie primitive utilizzate all’epoca. Ma le idee, in realtà, già c’erano».

E l'esempio, per Malgieri, è la già citata sequenza di apertura di Final Fantasy VII, che in effetti è un piano sequenza privo di stacchi.

«Mi permetto di tornare alla sequenza iniziale di Final Fantasy VII: quello era già un primissimo esempio di piano sequenza ante-litteram, il che dimostra che la volontà di misurarsi con quel tipo di linguaggio e tecnica di ripresa già c’era. Mancavano solo strumenti all’avanguardia che hanno permesso di metterli in pratica, un ostacolo che oramai è stato da tempo superato».

Non una tendenza da inseguire per "scimmiottare" la raffinatezza del cinema, insomma, ma una possibilità che si è aperta anche alle regie videoludiche via via che sono progredite le tecnologie, e che i motori grafici hanno reso più agevole anche girare con in mente un piano sequenza.

Cutscene e interazione: videogiochi a compartimenti stagni?

Arriviamo così al punto che in realtà era quello che volevo toccare fin dall'inizio – ma, come sempre, quando ti confronti con menti piene di spunti è fortunatamente difficile non toccare tanti argomenti, via via che si presentano.

Quando ci confrontiamo con i videogiochi, nonostante le grandi evoluzioni tecnologiche, rimane ancora la sensazione che in alcuni le cutscene e le parti di gameplay siano compartimenti stagni che non si compenetrano, ma che semplicemente si susseguono.

Il gioco ti pone un obiettivo, quando lo raggiungi posi il controller e parte una cutscene. Quando termina la cutscene, riprendi il controllo. Si tratta di un modo di alternare l'interazione attiva a quella passiva, di passare dal videogioco al cinema digitale. Forse, di un modello di approccio figlio proprio dell'incontro e della rimediazione di un linguaggio espressivo dentro un altro.

La riflessione che Malgieri mi propone, sull'argomento, tira in ballo l'opera lirica italiana ed è particolarmente calzante:

«C’è un libro, Il videogioco – Storia, forme, linguaggi e generi, che a mio avviso riesce a dare una spiegazione molto efficace su questo eterno dualismo tra cutscene e interazione. L’autore, infatti, si serve di un paragone molto interessante con l’opera lirica italiana di fine Settecento e inizi Ottocento, dove compara le cutscene all’aria e le sequenze di gameplay al recitativo.

In lirica, il recitativo è la parte in cui i cantanti danno vita ai dialoghi, vengono illustrati gli antefatti; insomma, fanno progredire il tempo della narrazione. In altre parole, il recitativo ha una funzione diegetica, esattamente come le sequenze di gameplay nei videogiochi.

L’aria, invece, è il momento in cui soprani e tenori iniziano a cantare, dove il tempo rallenta fino ad arrestarsi, lasciando spazio alle emozioni, alla dimensione sensoriale e più privata dei personaggi stessi; proprio come accade nelle cutscene».

Secondo la redattrice e ricercatrice, tuttavia, ci sono anche punti di contatto con il teatro, che possono legarsi a questa riflessione, perché controllare un personaggio significa interpretare il personaggio:

«Personalmente, se è vero che molti giochi narrativi rinunciano ad uno dei caratteri costitutivi del videogioco (l’interazione uomo-macchina, appunto), è altrettanto vero che il videogioco attua oggi altri tipi di interazione con l’utente. In questo, penso che il videogioco, soprattutto quello narrativo, abbia più punti di contatto con il teatro che con il cinema.

Ad esempio: quando abbiamo un controller in mano e prendiamo il controllo di quel personaggio, noi interpretiamo quel personaggio, e non solo da un punto di vista meccanico. In fin dei conti, in inglese 'giocare' e 'interpretare' sono accomunati dallo stesso verbo, 'to play', se ci pensate.

Interagiamo con il nostro avatar tramite input inviati dal nostro joystick, è vero, ma la connessione che si crea con esso non è solo meccanica; condividiamo il suo vissuto perché le cutscene ci permettono di connetterci con lui o lei. Le due cose oramai sono imprescindibili e questo non è necessariamente da vedere come un male».

E se il modello diventano le serie TV?

Abbiamo parlato tanto di cinema, ma oggi in moltissimi si avvicinano al linguaggio filmico anche grazie alle serie TV. Le produzioni per la serialità televisiva, con le tantissime offerte on demand o meno, hanno ormai valori produttivi che si avvicinano (o si appaiano) a quelli del cinema: pensiamo a quanto HBO stia investendo su The Last of Us, dopo aver affrontato spese consistenti per un kolossal come Il Trono di Spade.

Sono diversi i casi in cui il videogioco ha preso come modello anche la serialità televisiva, e in diversi aspetti. Un gioco come Alan Wake, recentemente tornato con la Remastered, era strutturato con i cliffhanger di fine episodio e una presentazione estremamente televisiva. Era un modello seguito anche dagli episodi di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, con tanto di (inopportuni, si può dire?) titoli di testa per il lancio di ogni missione.

Ma c'è di più: al di là del modello di narrazione, i videogiochi avevano adottato il modello delle serie TV anche nella distribuzione. Ai suoi tempi, Life is Strange colpì non solo per il suo somigliare a una serie TV, ma per il suo essere distribuito in modo affine, con gli episodi intervallati dal trascorrere del tempo.

Era lo stesso modello che distingueva le produzioni della defunta Telltale Games e delle sue avventure, e che oggi è praticamente in soffitta: quando Square Enix ha presentato Life is Strange: True Colors, fin dal primo istante ci ha detto e rimarcato che gli episodi sarebbero usciti tutti insieme, lo stesso giorno.

Significa che per i videogiochi era un modello non attuabile? O, tornando alla pubblicazione in data singola, perché ormai troppo abituati alle scorpacciate del binge watching (vedere tutti gli episodi di una serie in una singola seduta, non dovendo aspettare la pubblicazione in giorni diversi, ndr), ci stiamo perdendo parte dell'esperienza?

Malgieri ha una sua idea in merito:

«Lo ammetto: io appartengo ancora a quella vecchia categoria di divoratori seriali e giocatori accaniti che ama il rilascio settimanale (o mensile/trimestrale) dei prodotti. Il binge watching elude completamente il senso dell’attesa, ingurgitiamo episodio dopo episodio senza assimilare appieno ciò che stiamo vedendo o giocando.

Siamo portati a trangugiare con voracità quello che ci viene proposto (anche per colpa della maledetta Fomo – Fear of missing out), talvolta senza neanche badare attentamente ai dettagli che i registi o i game director disseminano con tanta attenzione nelle loro creazioni.

Io sono più vicina a quella forma di fruizione televisiva (e videoludica) definita a livello accademico tantrica, in cui si preferisce assaporare e gustarsi ogni momento di un prodotto, guardando o giocando un po’ alla volta. Nonostante il lavoro che faccio molto spesso mi renda impossibile godermi i giochi con lentezza, avendo fisso un embargo che pende come una spada di Damocle sulla mia testa, quando posso, cerco di dedicare al gioco quella giusta attenzione che merita».

L'idea dell'accademica, insomma, è che alcune produzioni giovavano dell'uscita episodica, perché permetteva ai giocatori di prestare maggiore attenzione a tutti i dettagli e perché innescava qualcosa, anche a livello emotivo, con l'idea di doversi interrogare su cosa sarebbe successo nei prossimi appuntamenti. Un approccio sicuramente diverso, dal doversi semplicemente proiettare subito nel prossimo, per scoprirlo.

«Per quanto Life is Strange: True Colors mi sia piaciuto tantissimo, non ho amato la scelta dei Deck Nine Games di rilasciarlo in un’unica stagione completa. Hanno eliminato una caratteristica importante dei loro giochi (e di quelli dei Dontnod) che li rendeva unici all’interno di uno scenario già pieno zeppo di giochi narrativi suddivisi in capitoli. Quello che mi piaceva di Life is Strange o di Life is Strange: Before the Storm era la loro capacità di sfruttare in modo originale i classici meccanismi ed espedienti narrativi tipici delle serie TV, creando un legame più profondo con le loro protagoniste. L’attesa. Formulare teorie. Ripensare alle proprie scelte» mi confida Malgieri. 

«Questo aspetto mi è mancato molto in True Colors, ma capisco anche che il pubblico dei giocatori è molto più impaziente rispetto a quello degli spettatori televisivi abituati ad un certo passato seriale, soprattutto per chi è cresciuto guardando Netflix o sfruttando il Game Pass. Tuttavia, è un peccato che gli studi di sviluppo abbiano deciso di abbandonare questo modello distributivo».

Videogiochi che diventano film: è un'invasione?

Resident EvilUnchartedThe Last of UsMetal GearMonster HunterAssassin's CreedTomb RaiderCastlevania. Se vogliamo allargarci, considerando che l'idea parte dal successo dei videogiochi più che da quello dei libri, The Witcher.

Sono solo alcuni dei nomi che vengono in mente – e in tempi recenti – se si pensa al percorso inverso rispetto al vecchio tie-in: non più l'opera del cinema/della TV che diventa videogioco, ma il videogioco che si reinventa senza interazione al cinema o per la TV.

In questo periodo, c'è la sensazione di assistere quasi a una invasione al contrario, in cui tantissimi produttori – pensiamo soprattutto a Netflix, che ha dedicato parte delle sue presentazioni alle opere videoludiche – stanno investendo per portare grandi IP del gaming sul grande e sul piccolo schermo.

I risultati, spesso, sono altalenanti (per usare un eufemismo) e Malgieri si trova concorde con la mia visione.

«Sono sempre stata piuttosto scettica nei confronti dei tie-in, visto che ci hanno sempre restituito pellicole molto deludenti, incapaci di connetterci in modo autentico a quello che era il gioco in sé e per sé. Tra l’altro, il più delle volte, innescando un meccanismo mortale: non accontentano né i fan dell’originale né incuriosiscono i neofiti al prodotto. Penso al film di Assassin’s Creed e davanti a me appare la faccia di René Ferretti di Boris, deluso e sconsolato dalla 'monnezza' che ha fatto» scherza, durante la nostra chiacchierata.

Proprio risultati come questo, però, evidenziano come il cinema abbia molta più difficoltà a esprimere i concetti e le emozioni di una intera saga: non puoi ridurre Assassin's Creed a una pellicola che si aggira sulle due ore. E mi preoccupa un po' pensare come Jordan Vogt-Roberts abbia intenzione di comprimere l'intero franchise Metal Gear in un unico lungometraggio.

Il formato della serie TV, sicuramente, dà più respiro e più spazio. Come spiegato da Malgieri:

«Sono dell’idea che il modo migliore per adattare i videogiochi su un altro medium sia proprio attraverso le serie TV, in quanto c’è più spazio per esplorare quegli universi narrativi in cui noi videogiocatori trascorriamo dalle 15 alle 40-50 ore.

Personalmente, aspetto con grande curiosità la serie di The Last of Us; e non solo perché è prodotta da Craig Mazin, già showrunner di Chernobyl (serie a mio avviso pazzesca), ma perché il formato in nove-dieci episodi permette, a livello narrativo, di toccare senza superficialità i temi che ci hanno fatto amare il gioco. Ma sono pronta a rimangiarmi tutto non appena vedrò la serie completa!

C'è anche da dire che l'adattamento a un altro medium "non lo prescrive il medico", per così dire, e potremmo vivere sereni anche senza che così tanti videogiochi tentino di compiere il grande passo. Fabrizia la vede abbastanza nello stesso modo, quando alla sua disamina aggiunge «in generale, non sono una fan degli adattamenti: preferisco sempre di gran lunga gli originali, anche se apprezzo lo sforzo artistico che molti autori mettono nelle loro opere 'tradotte'».

Raccomandazioni per videogiocatori e per cinefili

Trovandomi davanti un vulcano come Fabrizia Malgieri, sarei stata folle a non fare la domanda più ovvia di tutte – per quanto ovvia fosse, sì. Ci sono sicuramente dei registi che i videogiocatori non conoscono, ma che dovrebbero, degli autori che valga la pena approfondire, per scoprire di più di quella settima arte che tanto va a braccetto con il nostro medium preferito.

Dalla riposta, potete prendere appunti per i vostri prossimi "recuperoni" da fare davanti allo schermo:

«Un regista? Ne avrei un elenco infinito, a dire il vero, e rischierei di cadere nella banalità. A gusto mio, direi il primissimo Cronenberg e il primissimo Nolan, Nicolas Winding Refn, Alfonso Cuarón e Alejandro González Iñárritu. E non solo perché potrebbero essere potenziali fonti di ispirazione in termini di direzione artistica, ma perché usano un linguaggio visivo che potrebbe prestarsi a molti generi videoludici».

In termini di serie TV, invece, c'è una sorpresa: parliamo spesso della conservazione dei videogiochi per le nuove generazioni, ma scopro con amarezza che sono i classici della serialità televisiva, per ora, a essere finiti in una soffitta impolverati.

«Serie TV? Da conoscere a menadito Tales from the loop, Criminal, Lost e Twin Peaks. Sono quattro, è vero, ma vivo con un incubo costante durante le mie interrogazioni agli esami: nessuno è in grado di raccontare la sinossi di Lost e Twin Peaks. Perché nessuno le ha mai viste. Nuove generazioni, vi prego: guardate Twin Peaks e Lost». E questa, va detto, fa fisicamente male.

Dal momento che su SpazioGames però abbiamo leggermente un soft spot per i videogiochi, la domanda vale anche al contrario. Considerando che Malgieri lavora tutti i giorni anche con persone che sono concentrate su cinema e serie TV, è interessante scoprire cosa consiglierebbe a chi vuole affacciarsi nel mondo dei videogiochi partendo da zero, per capire cosa sono, oggi, i videogiochi.

I nomi che spuntano nella sua replica non potrebbero essere più diversi e sono tutti di grande ispirazione:

«Death Stranding e It Takes Two. Condivisione, empatia, gioco di squadra: i videogiochi contemporanei sono questo, al giorno d’oggi. Nessuno si salva da solo, questa pandemia ce l’ha insegnato molto bene, e nonostante siano giochi molto, ma molto diversi tra loro, penso che siano pienamente rappresentativi del tipo di esperienza che i videogiochi, di questi tempi, possono offrire».

E il messaggio, anche con i nomi successivi, è chiaro: il videogioco è un passatempo, certo. Ma è anche un passatempo, non solo un passatempo. Come ogni medium, è un veicolo di messaggi – che arrivano con una potenza straordinaria, quando non guardi la storia, ma la vivi:

«E per motivi altrettanto diversi, dico Papers, please!, Gris o Lake: a differenza del sentire comune, i videogiochi possono e devono trasmettere messaggi, siano questi di carattere politico, sociale o relativo alla salute mentale.

Sono prodotti culturali esattamente come i libri, il cinema, l’arte e così via. Sono intrattenimento, è vero, ma la fortuna è che oggi siamo usciti da quel circolo vizioso del videogioco = cazzeggio.  È anche quello, certo.

Ma non solo».

Bibliografia e filmografia

  • Lombardi M., Fuck the continuity: regole ed eccezioni in regia, 2010, Dino Audino Editore
  • Mosna L., Il videogioco. Storie, forme, linguaggi, generi, 2018, Dino Audino Editore
  • Paprika - Sognando un Sogno, regia di Satoshi Kon, 2006
  • The Hateful Eight, regia di Quentin Tarantino, 2015
  • Nodo alla gola, regia di Alfred Hitchcock, 1948
  • Assassin's Creed, regia di Justin Kurzel, 2016
  • Chernobyl, di Craig Mazin, 2019, HBO
  • Tales from the Loop, di Nathaniel Halpern, 2020, Amazon Prime Video
  • Criminal, di George Kay e Jim Field Smith, 2019-2020, Netflix
  • Lost, di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, 2004-2010, ABC
  • Twin Peaks, di David Lynch e Mark Frost, 1990-1991, ABC
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