Passati diversi anni ho ormai una visione ben chiara del gaming in VR, ovvero la visione di un visore costoso, coperto di polvere, riposto su uno scaffale. Il simbolo di una rivoluzione promessa e mai arrivata, di un futuro che ci era stato venduto come imminente e che, invece, si è arenato in un presente stagnante, fatto di tech demo glorificate e un'assoluta, assordante mancanza di contenuti.
Sono passati più di dieci anni da quando l'Oculus Rift infiammò Kickstarter, promettendo di trasportarci in nuovi mondi. È passato quasi un decennio da quando Facebook, ora Meta, fiutò l'affare e investì miliardi, scommettendo che quello sarebbe stato il "prossimo miliardo di utenti".
Sony ci ha provato, Valve ha creato un capolavoro (e continua a investire con l'Index), HTC ha spinto sui pixel. Eppure, oggi, la VR nel gaming non è la piattaforma dominante che doveva diventare. Non è nemmeno una solida seconda scelta.
Quando una cosa non attacca
È una nicchia. Un "cul-de-sac" tecnologico, affascinante ma isolato, dal quale l'industria mainstream non sa come uscire. Il problema non è neanche la tecnologia. Provare un Half-Life: Alyx o persino un Beat Saber a livelli alti rimane un'esperienza che toglie il fiato.
Ma una volta svanito l'effetto "wow" iniziale, cosa resta? Resta un mercato asfittico, idee poco convincenti e una serie di barriere invalicabili che l'industria, per arroganza o miopia, ha sistematicamente ignorato.
Il gaming in VR non ha fallito perché la tecnologia non funziona; ha fallito perché non ha saputo darci un motivo valido per usarla ed è di questo di cui voglio parlarvi oggi.
Il primo, insormontabile ostacolo è sempre stato quello che in gergo si chiama "attrito". Il gaming di successo è, per sua natura, a basso attrito.
Premi un pulsante sulla console, il gioco parte. Clicchi un'icona sul PC, sei dentro. La VR, al confronto, è quasi come andare a lavorare.
Anche con i moderni visori standalone come il Meta Quest 3, il processo è macchinoso. Devi assicurarti che sia carico. Devi definire l'area di gioco. Devi indossare "lo scafandro", regolarlo, stringerlo, trovare il punto focale giusto.
Devi isolarti completamente dal mondo esterno, sperando che un familiare o un animale domestico non entri nel tuo spazio.
E poi c'è il disagio fisico. Il peso sulla testa, il sudore che si accumula sulla guarnizione facciale, la pressione sugli zigomi. E, naturalmente, la motion sickness.
Per una percentuale significativa della popolazione, la cinetosi è un problema non da poco. Non importa quanto sia bello un gioco se dopo venti minuti ti provoca nausea.
L'industria ha provato a mitigarlo con opzioni come il "teletrasporto" o la "vignettatura", ma sono stati tutti cerotti su un problema fondamentale: stiamo ingannando il nostro cervello, e al nostro cervello non piace.
A questo attrito fisico si aggiunge quello economico. Per anni, la VR "vera" ha richiesto un PC da gaming di fascia alta, oltre al costo del visore stesso.
Oggi, il PSVR 2 di Sony (un pezzo di hardware eccellente) costa più della console (la PS5) necessaria per farlo funzionare. È un accessorio da 600 euro per il quale, a un anno dal lancio, la stessa Sony sembra aver interrotto quasi del tutto lo sviluppo software di peso.
Il Quest 3 di Meta, il leader di mercato, ha un prezzo più accessibile, ma resta un acquisto "extra". In un mondo dove l'inflazione è alle stelle, il giocatore medio deve scegliere: spendo 500 euro per una console che mi darà accesso a GTA VI, Elden Ring e Call of Duty per i prossimi sette anni, o li spendo per un visore che mi permetterà di giocare a Beat Saber e a una manciata di titoli indie? La risposta è ovvia.
Il deserto dei contenuti
Il problema dell'hardware costoso e scomodo potrebbe essere superato se, dall'altra parte, ci fosse un catalogo di esperienze imperdibili. Ma il software è il vero tallone d'Achille della VR.
L'industria è intrappolata in un paradosso: i grandi publisher non investono 200 milioni di dollari in un titolo AAA VR perché la base installata è troppo piccola; ma la base installata resta piccola perché non ci sono titoli AAA da 200 milioni che ne giustifichino l'acquisto.
In questo deserto, abbiamo avuto un'unica, gloriosa esperienza: Half-Life: Alyx. Nel 2020, Valve ha dimostrato cosa fosse possibile fare. Alyx non era un gioco "adattato" alla VR; era un gioco che poteva esistere solo ed esclusivamente in VR.
Ogni meccanica, ogni interazione, ogni puzzle era costruito attorno alla presenza fisica del giocatore. È, ad oggi, il capolavoro della piattaforma.
Ma Alyx è stato l'eccezione che ha confermato la regola. È stato talmente rivoluzionario e qualitativamente superiore a tutto il resto, da evidenziare impietosamente la pochezza del panorama circostante. E dopo Alyx, cosa è arrivato? Poco altro, a essere sinceri.
Il resto del catalogo VR è composto, infatti, da tre categorie: i "Wii Sports" della VR: Giochi come Beat Saber o Pistol Whip. Eccellenti, divertenti, ottimi per le feste. Ma rimangono esperienze arcade, non ecosistemi. Nessuno ha comprato una PS4 solo per giocare a Resogun.
Porting malriusciti, ossia titoli come Skyrim VR o Fallout 4 VR. Esperienze nate per il "flat screen" e trapiantate goffamente in un ambiente 3D, spesso con controlli legnosi e un'interfaccia utente da incubo.
Infine, la fiera della Tech demo, ovvero il 90% dello store di Meta. Giochi di zombie "wave shooter". Escape room. "Esperienze" narrative in cui si sta fermi. Giochi basati su una singola meccanica fisica (lanciare, arrampicarsi) ripetuta all'infinito. Idee carine per 15 minuti, ma prive di profondità, narrativa o rigiocabilità.
Insomma, mancano i generi che tengono in vita il gaming: mancano i grandi RPG, mancano gli strategici complessi, mancano i giochi sportivi su licenza, mancano gli action-adventure narrativi. Manca, in sintesi, la "ciccia"
L'isolamento sociale
C'è un altro aspetto che mi preme discutere decisamente sottovalutato, ovvero che il gaming moderno è un'attività intrinsecamente sociale.
Giochiamo con gli amici. Chiacchieriamo su Discord mentre facciamo una partita a Fortnite. Condividiamo screenshot, registriamo clip, guardiamo streamer su Twitch. Il gaming è diventato un'esperienza condivisa, uno spazio comunicativo.
La VR, per sua stessa definizione, è l'opposto. È un'esperienza di isolamento totale. Indossare un visore significa mettersi una scatola in testa e tagliare i ponti con il mondo reale.
È difficile da condividere, scomodo da portare in streaming (l'inquadratura in prima persona mossa è quasi inguardabile) e fisicamente separato da chiunque altro sia nella stanza.
Il principale attore del mercato, Meta, ha cercato di risolvere questo problema non puntando sui giochi, ma scommettendo tutto sul "Metaverso". E questo è stato, forse, l'errore strategico più grave.
Invece di usare i suoi miliardi per finanziare i prossimi tre Half-Life: Alyx e costruire un catalogo di giochi imperdibili, Mark Zuckerberg ha inseguito un sogno distopico e corporativo di "meeting virtuali" e avatar senza gambe.
Ha investito miliardi in Horizon Worlds, una piattaforma social che sembra un prototipo di Second Life del 2005, che nessuno ha chiesto e che nessuno usa.
Inseguendo l'idea di trasformare la VR in un ufficio virtuale o in una piazza social, Meta ha alienato il suo unico, vero pubblico pagante: i gamer.
Mentre Meta bruciava capitali nel Metaverso, Sony lanciava PSVR 2 con un supporto first-party quasi nullo, lasciando il suo costoso hardware a morire di fame.
Chiaro, come si fa a non pensare che queste combinazioni di strategie fallimentari non abbia creato un clima di sfiducia?
Un futuro da periferica
Oggi, la VR non è "la prossima grande piattaforma". È una periferica, costosa, destinata a mercati verticali.
Ha trovato un successo innegabile in nicchie specifiche che beneficiano immensamente dell'immersione: i simulatori di volo (come Microsoft Flight Simulator) e i simulatori di guida. In questi contesti, dove i giocatori hanno già postazioni dedicate e una mentalità "hardcore", la VR è un add-on che cambia certamente la vita.
Ma per il mainstream? Per il giocatore medio che torna a casa la sera e vuole solo rilassarsi per un'ora sul divano? La rivoluzione, lo possiamo ammettere, è fallita.
Il sogno della VR nel gaming non è morto perché la tecnologia fosse scadente e i straordinari visori di oggi, lo dimostrano. È morto per mancanza di idee, e per un prezzo d'ingresso (sia economico che fisico) che ha eretto un muro invalicabile per i consumatori.
Abbiamo preso il visore, abbiamo visto il futuro per dieci minuti, abbiamo detto "wow". Poi lo abbiamo riposto sullo scaffale e siamo tornati a giocare sul nostro comodo, piatto, bidimensionale e infinitamente più divertente monitor. E lì, molto probabilmente, resterà.