Il 29 settembre 1995 arrivava nei negozi europei la prima PlayStation. Non una console qualsiasi, ma la console, quella che avrebbe cambiato per sempre il modo di pensare, vivere e raccontare i videogiochi.
Trent’anni dopo, mentre celebriamo questo anniversario, ci accorgiamo che parlare di quella scatoletta grigia equivale a parlare della nostra adolescenza, delle nostre illusioni, della promessa che il futuro del medium videoludico non sarebbe più stato confinato a una nicchia da nerd in cameretta, ma avrebbe invaso la cultura popolare con la potenza di una supernova.
La prima PlayStation non è stata semplicemente un oggetto tecnologico. È stata un manifesto culturale.
Nel 1995, mentre l’Europa si godeva ancora le generazioni di Super Nintendo e Sega Mega Drive, Sony metteva sul tavolo qualcosa che nessuno aveva mai osato prima: un hardware che trattava i videogiochi come cinema interattivo, con grafiche tridimensionali, colonne sonore da film e spot pubblicitari che avrebbero fatto impallidire David Lynch per surreale spavalderia.
La rivoluzione del treddì
Io me la ricordo ancora, la prima volta che l’ho visto, quel coso di plastica che prometteva “il futuro”, e lo faceva dalla schermata di avvio: quel logo PlayStation che si materializzava dopo il suono più ipnotico mai partorito da un ingegnere giapponese. Vi sfido a dimenticarlo: quel rumore metallico, quel crescendo che sembrava aprire un portale verso un’altra dimensione.
Oggi, nel 2025, lo ricordo ancora come fosse un eco nella mia mente. Non stavamo semplicemente per giocare, stavamo per entrare in un altro mondo.
PlayStation ha fatto ciò che Nintendo e Sega non riuscirono mai del tutto a fare: ha reso i videogiochi cool. Non più un passatempo da ragazzini con troppi brufoli e poca vita sociale, ma un oggetto di culto che parlava agli adolescenti, ai ventenni, a chi si sentiva parte di una nuova cultura urbana.
Sony puntò sullo stile, sulla musica elettronica, sugli spot allucinati e psichedelici. C’erano pubblicità che non avevano alcun senso, ma che comunicavano una verità profonda: se volevi essere avanti, se volevi appartenere al futuro, dovevi avere una PlayStation.
Ricordo ancora le chiacchiere a scuola: chi aveva la Play era automaticamente “quello figo”. Potevi non avere la maglietta firmata, potevi non avere lo scooter truccato, ma se nel pomeriggio aprivi la porta della tua cameretta e lì dentro scintillava una PS1 con accanto Tekken 2 o Gran Turismo, eri già entrato in un’altra categoria.
Sony capì che il videogioco non era solo software e hardware, ma soprattutto identità. Un linguaggio nuovo, capace di parlare tanto a chi veniva dal coin-op quanto a chi stava scoprendo il potere del 3D. Ed era un linguaggio diretto, trasgressivo.
Con Metal Gear Solid scoprii che un videogioco poteva raccontare storie complesse, con personaggi tormentati e monologhi filosofici sulla guerra e la tecnologia. Non capivo tutto, non ero ancora maggiorenne, ma sentivo che c’era qualcosa di più grande, che i videogiochi stavano diventando letteratura digitale.
E poi c’era Final Fantasy VII. Non importa se oggi lo ricordiamo con le sue texture spigolose e i personaggi che sembrano fatti di LEGO. All’epoca era pura poesia. Non lo si ammetteva con gli amici, perché avevamo la maschera dura dei ragazzini di fine anni ’90, ma dentro lo si sapeva, lo si percepiva. Ecco cosa ha fatto PlayStation: ha messo l’anima dentro ai videogiochi.
La democratizzazione del sogno
PlayStation era anche accessibilità. Lo dico senza ipocrisie: era la console della pirateria. Con la modifica al chip, bastava andare al mercato e con 10mila lire ti portavi a casa il nuovo gioco importato dal Giappone. Era illegale, certo, ma fu anche ciò che rese PS1 ubiqua.
Tutti ce l’avevano, tutti potevano giocare a centinaia di titoli. Quella diffusione selvaggia fu la benzina che trasformò PlayStation da console a fenomeno sociale.
E non si trattava solo di quantità. La varietà era mostruosa. Un giorno ti immergevi nelle corse realistiche di Gran Turismo, il giorno dopo prendevi a pugni gli amici in Tekken 3, la sera ti facevi spaventare da Silent Hill. Ogni disco argentato che inserivi nel cassetto era un biglietto per un universo diverso.
Oggi, nel 2025, PlayStation è ancora qui. È diventata un marchio globale, con console che vendono decine di milioni di pezzi e giochi che costano quanto un piccolo film di Hollywood. Ma se mi chiedete se quella magia del 1995 esiste ancora, la risposta è più complessa.
Eppure non dobbiamo cadere nel solito tranello della nostalgia cieca. Il merito della prima PlayStation non è solo quello di averci fatto sognare da ragazzini. È di aver tracciato un sentiero irreversibile. Oggi parliamo di “videogioco come arte” senza che nessuno alzi un sopracciglio, ma negli anni ’90 era un’eresia. PlayStation ha reso legittima questa idea, ha dato dignità al medium.
Trent’anni dopo: cosa resta?
Quando penso ai trent’anni di PlayStation, non vedo solo una console. Vedo un’epoca. Vedo le serate passate a soffiare sul pad perché il tasto R2 si era incastrato. Vedo le pile di memory card con etichette scarabocchiate, ogni salvataggio una vita parallela. Vedo un marchio che ha insegnato a un’intera generazione che i videogiochi non erano più “giochini”.
Erano mondi. Erano esperienze emotive, culturali, estetiche. E oggi, a trent’anni di distanza, possiamo dire senza esitazioni che quella piccola scatola grigia ha avuto più impatto di qualunque manuale scolastico, di qualunque programma televisivo, di qualunque disco musicale degli anni ’90. PlayStation non ci ha solo intrattenuti. Ci ha formati.
Trent’anni dopo, mentre le nuove console parlano di realtà virtuale, cloud e intelligenza artificiale, io torno sempre lì, a quel 29 settembre 1995. Torno a quel futuro appena abbozzato, forse troppo grande per le mie mani di ragazzino. Torno a quel logo che si materializza sullo schermo, a quel suono che ancora oggi mi fa venire i brividi.
E capisco che la prima PlayStation non è mai davvero passata. Vive ancora dentro di noi, in ogni volta che accendiamo una console e speriamo di ritrovare quel brivido del primo viaggio.
Forse non lo ritroveremo mai più con la stessa intensità. Ma non importa. Perché quel brivido ci ha cambiati per sempre.