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Siamo in un mercato di cloni senz'anima?

Il declino dell'identità videoludica: l'era dei cloni senz'anima discussa nel nostro SpazioGames Original, a cura di Marcello Paolillo.

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a cura di Marcello Paolillo

Editor-In-Chief

Pubblicato il 01/10/2025 alle 10:30

Negli ultimi anni, il mercato si sta riempiendo di titoli che sembrano l'ombra di qualcosa già visto. Giocando a Lost Soul Aside, Tides of Annihilation, Where Winds Meet, Crimson Desert o The Legend of Jin Yong, si ha la strana sensazione di trovarsi di fronte a opere che esistono più per imitazione che per ispirazione.

Titoli che prendono pezzi sparsi di esperienze passate, assemblandoli con precisione chirurgica, ma senza mai infondere quell’anima che rende un videogioco memorabile. Quello che stiamo vivendo è un vero e proprio effetto copia-incolla, un fenomeno sempre più dilagante che rischia di svuotare il mercato di personalità e identità.

La causa è una e una soltanto: la combinazione di fattori: la rincorsa al trend, l'uso sempre più pervasivo dell’intelligenza artificiale nella creazione di asset e l'incapacità (o la mancanza di volontà) di osare con scelte artistiche e stilistiche coraggiose.

Il risultato è un mercato che sembra un catalogo di copie sbiadite, dove l’originalità è un’eccezione anziché la regola.

Quando l'originalità diventa un rischio

L'industria dei videogiochi, come ogni mercato in espansione, ha sempre avuto i suoi cloni. Dai platform che tentavano di cavalcare l’onda di Super Mario negli anni ’90 ai mille soulslike che hanno popolato la scena dopo il successo di Dark Souls. Tuttavia, il problema di oggi non è semplicemente la ripetizione di formule di successo, ma la progressiva sterilizzazione dell’identità estetica e ludica.

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Lost Souls Aside non è brutto, solo derivativo.

Lost Soul Aside, che ho recensito qui, sfoggia un combat system e un’estetica che sembrano il risultato di un algoritmo che ha analizzato Devil May Cry e Final Fantasy XV per poi riproporne una versione che manca di una propria voce. Where Winds Meet, invece, si presenta come il “Ghost of Tsushima con più wuxia”, senza un tratto distintivo che lo renda davvero riconoscibile.

Titoli come Silksong ci ricordano che uno stile distintivo, un design unico e una direzione artistica coerente possono fare la differenza.
Crimson Desert? Una chimera di The Witcher e Assassin’s Creed, ma senza l’eccellenza narrativa del primo o la rifinitura del secondo. E non è solo un problema di gameplay: persino le ambientazioni, le storie e i personaggi sembrano fatti con lo stampino. È come se questi giochi fossero concepiti per essere immediatamente familiari, per non rischiare mai di sorprendere, per non fare nulla che possa risultare “troppo diverso” da ciò che il pubblico già conosce. Questa è la morte della creatività.

Non vediamo più mondi unici come quelli di Shadow of the Colossus, non abbiamo più lo stupore di un BioShock o l’inventiva di un Katamari Damacy. Al contrario, ci ritroviamo con giochi iperrealistici, perfetti nei dettagli ma completamente vuoti a livello emozionale.

L’uso sempre più diffuso dell’intelligenza artificiale nella creazione di asset, ambientazioni e animazioni sta contribuendo all’appiattimento dell’identità artistica. Se un tempo la realizzazione di un mondo virtuale richiedeva mani e menti capaci di dare una direzione stilistica precisa, oggi le IA permettono di generare paesaggi e modelli iperrealistici senza una reale coerenza estetica.

Prodotto in caricamento

La conseguenza? Ambienti belli da vedere ma privi di personalità, protagonisti affascinanti ma generici, combattimenti spettacolari ma senz’anima. E la cosa peggiore è che i publisher sembrano felici di questa tendenza.

Costa meno, richiede meno rischi e assicura un risultato visivamente impressionante. Il problema è che un videogioco non dovrebbe essere solo una sequenza di immagini ben fatte, ma un’esperienza coinvolgente, capace di lasciare un segno. E invece ci troviamo con giochi che sembrano trailer di se stessi: belli da vedere, vuoti da giocare.

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A fronte di questa situazione, viene da chiedersi: se tutto è un collage di idee preesistenti, cosa differenzia un videogioco da un semplice prodotto di intrattenimento? Se un tempo i giochi avevano una propria impronta inconfondibile (pensiamo ai mondi surreali di Hidetaka Miyazaki, alla stilizzazione estrema di Suda51 o alla follia creativa di Yoko Taro), oggi sempre più titoli sembrano costruiti per impressionare il pubblico a livello tecnico, ma senza un cuore pulsante.

Il rischio è che i videogiochi diventino simulacri di esperienze passate, copie senz’anima di titoli che hanno segnato la storia.

Un mercato saturo di giochi che si somigliano tra loro, senza un’identità riconoscibile, potrebbe portare a un’inevitabile stanchezza del pubblico. E se un giorno non riuscissimo più a distinguere un gioco dall’altro? Se tutto diventasse solo un loop infinito di produzioni impeccabili, ma prive di passione?

Ed è qui che mi sento di dire una cosa con una certa durezza: basta. Basta con i giochi che sembrano modelli 3D senza anima, basta con le esperienze che sembrano più dei tech demo che dei veri giochi. Voglio mondi che mi facciano sognare, voglio idee nuove, voglio giochi che abbiano il coraggio di essere unici.

Se l’industria continua su questa strada, non solo perderemo l’identità videoludica, ma trasformeremo i videogiochi in un mero esercizio di stile senz’anima.

La speranza negli indie e nei visionari

Fortunatamente, in questo mare di uniformità, c’è ancora chi osa. Il panorama indie e alcuni sviluppatori visionari continuano a sperimentare, a spingere i confini della creatività e a dimostrare che il videogioco può essere ancora un medium sorprendente. Titoli come Hollow Knight: Silksong (recensito qui) e Hades 2 (la review la trovate invece a questo indirizzo) ci ricordano che uno stile distintivo, un design unico e una direzione artistica coerente possono fare la differenza.

E non è un caso che spesso siano proprio i piccoli studi, liberi dalle pressioni degli azionisti e dalle logiche di mercato più spietate, a inventare soluzioni innovative. Pensiamo al fenomeno di Undertale, nato quasi dal nulla e capace di generare un culto planetario, o al successo di Outer Wilds, un gioco che ha osato proporre una narrazione ciclica e filosofica, lontana da qualsiasi blockbuster contemporaneo.

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Silksong dimostra come la semplicità venga premiata.

Questi sono esempi di come l’arte videoludica possa ancora sorprendere, emozionare, rinnovarsi. Il punto è che serve coraggio. Coraggio di fallire, di proporre qualcosa di nuovo anche a rischio di alienare una parte del pubblico. Coraggio di non seguire la via facile del “più realistico possibile”, ma di inventare linguaggi estetici che parlino all’immaginazione.

Coraggio di andare oltre l’ossessione per i numeri e i trend, per tornare a guardare ai videogiochi come a un atto creativo e non solo come a un prodotto commerciale.

L’industria ha bisogno di più opere così. Di più creatori disposti a rischiare, di meno giochi creati “a tavolino” per inseguire trend. Perché alla fine, non sono gli effetti speciali a rendere grande un videogioco, ma il coraggio di essere qualcosa di mai visto prima.

E se i grandi studi non lo capiscono, allora il futuro sarà nelle mani degli indie. E forse, arrivati a questo punto, non sono così tanto sicuro che sarebbe un male.

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