Quando un videogioco smette di essere un gioco e diventa un meme culturale.
C’è una verità scomoda che pochi hanno il coraggio di dire ad alta voce: Hollow Knight: Silksong è ormai diventato molto più di un videogioco.
O meglio, è diventato qualcos’altro, qualcosa di indefinibile, sospeso in quella zona grigia che non appartiene né al marketing tradizionale né alla semplice attesa di un prodotto. Silksong (l'originale lo trovate su Amazon) è un rito collettivo, un fenomeno folkloristico digitale, un pezzo di cultura nerd che da anni vive più di meme, speculazioni e attese disilluse che di gameplay mostrato.
E quando finalmente, dopo infiniti rimandi, mezze frasi e silenzi tombali del Team Cherry, arriva una data e l’impatto non è stato quello che ci si poteva aspettare. Non un uragano di entusiasmo autentico, ma un misto di sollievo, sarcasmo e incredulità.
La cultura dell’hype: droga o veleno?
Viviamo nell’epoca della cosiddetta “hype culture”. È un termine che suona quasi innocuo, ma che nasconde un meccanismo profondamente perverso. Non è più il gioco in sé a interessarci, ma l’atto stesso dell’attesa. Non contano i contenuti, contano i trailer da due minuti, i loghi stilizzati, le scritte “attualmente in sviluppo”. Ci si emoziona per un nulla, per il puro fatto che qualcosa “esista” in potenza. E quando quel qualcosa tarda ad arrivare, si trasforma in ossessione, in frustrazione condivisa, in battuta da community.
Silksong è diventato questo: un titolo di cui si parla più per la sua assenza che per la sua presenza. Una promessa infinita, un fantasma che aleggia da anni sulle timeline e nei forum, un running gag tanto amata quanto esasperante. “Quando esce Silksong?” è diventato un tormentone capace di eguagliare Half-Life 3.
Ma la domanda vera è: perché ci caschiamo sempre? Perché continuiamo a lasciarci intrappolare in questo meccanismo che ci illude e ci tradisce con la stessa ciclicità di un orologio svizzero?
C’è un concetto che potremmo definire “nostalgia anticipata”. Si tratta di quella strana sensazione di mancanza che proviamo non per qualcosa che abbiamo vissuto, ma per qualcosa che non è ancora arrivato.
Silksong ci manca, pur non avendolo mai giocato. Ci manca perché lo immaginiamo, perché abbiamo costruito intorno ad esso un mito, perché lo associamo a un tempo in cui credevamo ancora che sarebbe uscito “a breve”.
È un paradosso malato: siamo nostalgici per un futuro che non è ancora accaduto. E questo perché l’industria videoludica (con colpe non solo del Team Cherry ma di decine di altri sviluppatori) ha imparato a manipolare questa nostra debolezza emotiva. Ci nutrono di teaser, ci tengono in apnea, ci spingono a creare aspettative spropositate che nessun gioco, per quanto perfetto, potrà mai soddisfare.
Quando finalmente arriverà il 4 settembre, quanti giocheranno a Silksong senza sentire il peso schiacciante di anni di attesa? Quanti lo giudicheranno per ciò che è, e non per ciò che avrebbero voluto fosse?
La generazione dei trailer
Non prendiamoci in giro: siamo ormai diventati la generazione dei trailer. Non giochiamo più, guardiamo. Non viviamo più esperienze, le anticipiamo. Non valutiamo un titolo per il tempo passato con il pad in mano, ma per la quantità di hype generata nei mesi (o anni) precedenti.
Basti pensare a casi come Cyberpunk 2077, No Man’s Sky o lo stesso The Day Before. Giochi che, nel bene e nel male, hanno vissuto molto più di aspettative che di realtà tangibili. L’industria ci ha insegnato a esaltare i concept art, a spolpare i teaser frame per frame, a ingigantire ogni dichiarazione degli sviluppatori fino a trasformarla in vangelo. Poi, quando arriva il momento della verità, la caduta è rovinosa.
Silksong non è immune da questo destino. Anzi, il suo lungo silenzio lo ha reso un candidato perfetto alla categoria dei giochi “più belli mai esistiti nella testa dei fan”. Ma c’è un problema: un titolo immaginato sarà sempre più affascinante del suo corrispettivo reale.
Diciamolo chiaro: il Team Cherry non ha mai davvero gestito la comunicazione di Silksong. O meglio, l’ha gestita attraverso il silenzio. Un silenzio che è diventato parte integrante del mito, che ha alimentato speculazioni, teorie e dibattiti.
È stato un atto di genialità o un fallimento comunicativo? Dipende dai punti di vista. Se l’obiettivo era tenere vivo l’interesse senza spendere un centesimo in marketing, missione compiuta. Se invece l’obiettivo era rispettare i fan, trattarli come persone e non come polli da allevare nel recinto dell’attesa, allora il risultato è stato disastroso.
Il silenzio ha creato un cortocircuito: i fan hanno riempito il vuoto narrativo con le proprie fantasie, e ora pretendono che quelle fantasie diventino realtà.
Forse non si tratta di invecchiare, ma di diventare lucidi. Forse la vera maturità sta nel disincanto, nella capacità di smascherare le dinamiche tossiche che ci tengono legati all’hype come mosche alla carta adesiva.
Non è questione di cinismo, è questione di dignità. Rifiutare di farsi prendere dall’hype non significa odiare i videogiochi, significa amarli davvero. Significa pretendere che tornino a parlare attraverso il gameplay, attraverso l’esperienza concreta, e non attraverso un tweet vago o un trailer in CGI.
E allora sì, forse stiamo invecchiando. Ma non è un male: è un atto di resistenza contro un sistema che ci vuole eternamente eccitati, eternamente insoddisfatti, eternamente in attesa.
Vecchi o lucidi?
La domanda che resta è: possiamo davvero liberarci della cultura dell’hype? O siamo condannati a vivere in questo loop infinito di attese e delusioni?
La risposta, probabilmente, sta nel modo in cui scegliamo di vivere i videogiochi. Possiamo continuare a farci sedurre dalle promesse e dalle chimere, oppure possiamo recuperare la dimensione più semplice e autentica: scoprire un titolo quando esce, provarlo senza aspettative, lasciarci sorprendere dai suoi pregi e dai suoi difetti reali.
Ma questa scelta richiede un atto di volontà, quasi un atto di ribellione. Richiede di spegnere l’ennesimo trailer, di ignorare l’ennesimo annuncio “coming soon”, di smettere di condividere l’ennesimo meme su Silksong. Richiede, in altre parole, di voler essere giocatori e non solo consumatori di hype.
Il 4 settembre, quando Silksong sarà finalmente disponibile, assisteremo a due fenomeni paralleli. Da un lato, l’esplosione di recensioni, streaming e opinioni contrastanti. Dall’altro, il silenzio improvviso di chi per anni ha vissuto solo dell’attesa. Perché l’hype ha una caratteristica crudele: muore non appena l’oggetto del desiderio diventa realtà.
A quel punto resterà solo il gioco, nudo e crudo. Sarà abbastanza? Sarà all’altezza di un mito costruito in modo così sproporzionato? Oppure verrà ricordato più per la sua interminabile gestazione che per la sua reale qualità ludica?
Non possiamo saperlo. Ma una cosa è certa: la vicenda di Silksong è l’ennesima dimostrazione che l’hype non è un dono, è una maledizione. Ci illude, ci eccita, ci consuma e alla fine ci lascia solo un retrogusto amaro. Sperando solo che questa volta ne valga davvero la pena.