Ci sono momenti, nel percorso di un medium, in cui occorre fermarsi e osservare la traiettoria con un minimo di lucidità. Il mondo dei videogiochi ci sta mettendo davanti a uno di questi momenti.
Negli ultimi anni, l’asticella dei prezzi si è alzata con una costanza quasi matematica: 79,99 euro è ormai lo standard per un titolo AAA su console, con picchi che arrivano senza vergogna a 89 o addirittura 109 euro nelle edizioni speciali.
Una cifra importante, non solo perché incide in modo diretto sul portafogli del giocatore medio, ma soprattutto perché sembra poggiare su basi sempre più fragili. Perché la verità è che troppo spesso quei soldi non equivalgono a un’esperienza rifinita, soddisfacente, degna della promessa implicita di un prezzo premium.
Lo vediamo chiaramente nei soliti sospetti: i giochi sportivi annuali, o le solite serie di sparatutto. Oppure lo notiamo in produzioni come Lost Soul Aside, partito a 69,99 euro (79,99 la Digital Deluxe), o l'altrettanto recente Metal Gear Solid Delta, che osa addirittura chiedere 99,99 euro per la sua edizione Deluxe, salvo poi presentarsi al lancio con prestazioni su PC che hanno fatto storcere il naso a più di un appassionato.
Videogiocare, quanto mi costi!
Il leitmotiv è sempre lo stesso: paghi prezzo pieno, ma al day-one ti ritrovi con un’esperienza zoppicante, da patchare e aggiustare col tempo. Una sorta di contratto capestro in cui il giocatore anticipa fiducia e denaro, mentre l’industria gli restituisce prodotti incompleti, quasi beta camuffate.
Ed è qui che il discorso diventa interessante, perché mentre i giganti spingono sempre più in alto, qualcuno sceglie di muoversi in direzione opposta. Hollow Knight: Silksong, uno dei giochi più attesi degli ultimi anni, arriverà il prossimo 4 settembre a un prezzo che sembra appartenere a un’altra epoca: 19,99 euro.
Oppure Clair Obscur Expedition 33, che di listino base costa circa 49,99 euro invece di 60 o 70 euro, per un RPG da decine di ore di gioco e la cui qualità è indiscussa (se vi va lo trovate pure scontato qui).
E allora la domanda diventa inevitabile: vogliamo davvero un’industria che continua a spingere i prezzi verso l’alto, quasi a volerci convincere che la qualità debba per forza coincidere con l’esborso economico, o vogliamo un’industria capace di costruire fiducia, che capisca che il rispetto per il pubblico passa anche attraverso modelli sostenibili?
Il nodo è culturale prima ancora che economico. L’industria videoludica sembra aver interiorizzato il mantra secondo cui il prezzo premium è un marchio di garanzia. Se costa 79,99 euro, allora deve essere per forza un’opera “importante”.
Eppure la realtà ci racconta il contrario: quante volte abbiamo visto giochi lanciati a 70 o 80 euro, presentati come rivoluzionari, salvo poi scoprire che non erano altro che variazioni sul tema, con la consueta dose di bug e problemi tecnici? Al contrario, alcuni dei giochi che hanno lasciato il segno negli ultimi anni (basti pensare a indie come Hades, Celeste, Stardew Valley o lo stesso Hollow Knight originale) costavano una frazione del prezzo standard, eppure hanno offerto esperienze memorabili, innovative, profondamente curate.
Il paradosso è che l’aumento dei prezzi non ha impedito il proliferare delle microtransazioni, dei DLC tagliati ad arte, delle espansioni vendute a parte. Paghi di più, ma continui a trovarti davanti contenuti spezzettati, pass stagionali e strategie di monetizzazione sempre più aggressive.
È come se i publisher volessero il meglio dei due mondi: da una parte il biglietto d’ingresso più alto della storia, dall’altra il costante drenaggio attraverso modelli che, nati come extra opzionali, si sono trasformati in tasselli strutturali dell’esperienza.
In questo quadro, la scelta di Team Cherry per Silksong appare quasi rivoluzionaria. Non perché 19,99 euro sia una cifra magica, ma perché manda un messaggio preciso: la qualità non deve per forza coincidere con la scalata dei prezzi. Certo, qualcuno obietterà che un indie può permettersi strategie diverse, che i costi di produzione di un AAA non sono paragonabili, che l’economia di scala è un’altra cosa.
Tutto vero, almeno in parte. Ma resta un dato di fondo: quando un gioco da venti euro riesce a catturare l’attenzione globale e a imporsi come evento, significa che non è solo questione di budget. È questione di fiducia, di rapporto con la community, di coerenza fra ciò che prometti e ciò che consegni.
E qui torniamo al punto centrale: la fiducia. Perché il prezzo non è solo un numero sullo scontrino, ma un segnale. È la misura del patto implicito fra chi sviluppa e chi gioca. Se chiedi 80 euro, stai implicitamente dicendo: “Questa esperienza li vale”. Se poi quella promessa non viene mantenuta, se al lancio il titolo traballa, se le novità sono minime, la dissonanza diventa insanabile. Il risultato è che il pubblico si sente tradito, e l’unica difesa diventa attendere gli sconti, rifugiarsi negli abbonamenti, evitare i pre-order.
E qui si apre un altro capitolo, quello dei servizi come Game Pass o PlayStation Plus. L’aumento dei prezzi dei singoli titoli ha reso sempre più attraenti questi modelli, che permettono di accedere a centinaia di giochi con un canone mensile. Ma c’è un rischio evidente: il gioco premium, pagato a prezzo pieno, diventa un’anomalia, un lusso che sempre meno giocatori sono disposti a concedersi. L’industria sembra non rendersene conto, o forse sì, ma preferisce spremere il breve termine, accettando di minare la fiducia sul lungo periodo.
La questione, in definitiva, è di visione. Cosa vuole diventare il videogioco? Un bene di lusso, accessibile solo a chi può permettersi di spendere cento euro per un’edizione completa, o un medium realmente universale, capace di parlare a tutti? La scelta di Silksong suggerisce che esiste ancora un’alternativa, che non tutto è perduto. Che si può ancora costruire un rapporto sano con i giocatori, senza trattarli come portafogli ambulanti.
L’industria, però, deve decidere. Non può continuare a pretendere fiducia a colpi di listini gonfiati, patch day-one e season pass obbligatori. Non può continuare a giustificare prezzi sempre più alti con produzioni che, al lancio, spesso non reggono il confronto con le promesse. Non può, insomma, continuare a ignorare che l’aumento dei costi non si traduce automaticamente in aumento di valore percepito.
Dove andremo a finire?
Il futuro del medium passerà anche da qui: dalla capacità di rinegoziare il patto col pubblico. Se l’industria continuerà a salire la scala dei prezzi, rischierà di scavarsi la fossa con le proprie mani, alienando quella base di appassionati che ha sempre rappresentato la sua linfa vitale. Se invece sceglierà la strada della fiducia, della sostenibilità, dell’accessibilità, allora potrà ancora crescere, innovare, sorprendere.
Silksong, con il suo prezzo quasi simbolico, è una piccola luce in un panorama che sembra sempre più dominato dal buio della speculazione. Ma a volte basta una luce per ricordarci che un altro cammino è possibile.
Sta a noi, giocatori e critici, continuare a chiedere quell’alternativa, a non piegarci all’idea che l’unico futuro possibile sia quello di pagare sempre di più per avere sempre di meno. Perché, alla fine, il videogioco è prima di tutto una questione di passione, non di estrazione di valore.
E chi quella passione la tradisce, a lungo andare, si condanna da solo.