Nell’aprile del 2022 veniva lanciata sul mercato una console alquanto peculiare: Playdate. Prodotta e distribuita da Panic, presentava diverse caratteristiche piuttosto uniche per un hardware portatile dell’epoca.
A saltare subito all’occhio è una particolare manovella sul lato della console, che avrebbe aggiunto ai classici input delle frecce direzionali e dei quattro tasti azione anche un nuovissimo tipo di interazione, scaturita dall'estrarre, riporre e azionare la manovella.
I titoli disponibili al lancio avrebbero, infatti, potuto essere controllati anche attraverso questo elemento così particolare. In alcuni casi si trattava di un’alternativa, in altri di un requisito fondamentale per interagire con il gioco, che aveva magari un design unico costruito proprio intorno a Playdate.
Ma, messa da parte la manovella, Playdate colpisce per altri due motivi: il design estremamente compatto e riconoscibile, e il suo peculiare parco titoli.
Sul primo punto c’è poco da dire: Playdate è l’apoteosi dell’hardware portatile. È piccolissima (entra nella tasca dei pantaloni e lascia anche spazio per le chiavi), leggera, maneggevole, comoda da usare ovunque e in qualunque momento della giornata. Il suo giallo intenso la rende immediatamente riconoscibile e visivamente molto piacevole.
Sul parco titoli vale la pena soffermarsi, ed è ciò su cui vogliamo riflettere oggi, a poche settimane dalla nuova ondata di titoli per Playdate: questo, infatti, non vuole essere un articolo di recensione, ma una riflessione sullo scopo della console e sul suo approccio – estremamente originale – al videogioco.
Un approccio che, al netto della qualità e del costo del prodotto (molto, molto alto), rappresenta qualcosa di unico e forse addirittura necessario nel panorama videoludico moderno.
Già, perché Playdate – come fece Nintendo Switch al suo lancio – è una console in cui l’unica cosa che si può fare è giocare. Non ci sono app, attività collaterali o funzionalità “extra”: solo ed esclusivamente giochi. Che sono peraltro giochi tutti suoi.
Il videogioco al centro di tutto
L’idea è chiara: riportare il videogioco al centro della scena. E farlo riscoprendo una tipologia di esperienze che, negli ultimi anni, è praticamente scomparsa.
Parliamo di quei giochi che non vogliono lanciare messaggi, non hanno valenze sociali, non puntano all’emozione o alla narrazione. Giochi scevri da ogni fattore che sia estraneo al puro gameplay. Titoli come Tetris, Arkanoid e altri arcade degli anni ’80-’90, pensati per riempire brevi spazi vuoti nella giornata di un videogiocatore.
Questa è la base dell’offerta di Playdate: giochi semplici, immediati, che si adattano a un consumo frammentato e spontaneo. Ma non solo, perché negli anni, a questa idea si sono affiancati esperimenti molto interessanti. Alcuni sviluppatori hanno colto la sfida dell’hardware bizzarro e minimale per proporre esperienze più complesse.
Questa apertura ha fatto sì che il catalogo si ampliasse anche in direzioni opposte rispetto alla filosofia iniziale. Ma va detto chiaramente: per quanto possa essere curioso vedere un clone di Factorio funzionare su Playdate, sono raramente questi i giochi che ci si ritrova davvero a vivere sulla console.
La forza di questa portatile resta nell’immediatezza. Code alle poste, attese alla fermata del bus, tragitti brevi: si estrae dal taschino, si fa una partita al volo, e la si ripone.
E proprio per questo, nella sua selezione di titoli stagionali, non vengono mai proposti giochi dalla natura longeva o complessa. Solo titoli arcade: semplici, rapidi, divertenti.
Ogni stagione distribuisce due nuovi giochi a settimana. Il giocatore riceve questi due titoli, che rimangono suoi per sempre, e ha così davanti a sé sette giorni per scoprirli, esplorarli e giocarli prima che ne arrivino altri due.
Si crea così una sorta di rituale settimanale, un piccolo evento personale, dove non si può correre a spolpare il gioco successivo, dove non c'è una soverchiante sovrabbondanza della libreria ludica: ora ci sono quei due, giochi quei due o i titoli delle settimane precedenti, con calma.
Alla base di questa formula c’è la volontà di restituire valore e centralità all’esperienza ludica. Un po’ come accadeva quando si ricevevano uno o due giochi l’anno e li si giocava fino allo sfinimento: pochi giochi, tanto tempo. Nessuna fretta.
Un approccio nostalgico?
Non è nostalgia. Panic non cavalca la retorica del “si stava meglio prima”, ma risponde a una problematica concreta: la bulimia videoludica.
Le nostre librerie, fisiche e digitali, sono colme di titoli mai avviati. Inseguire il day-one è spesso una questione di moda, più che di reale interesse. Si rincorre la FOMO, la paura di restare fuori dalle conversazioni, anche a costo di abbandonare un gioco solo poche ore dopo.
Nel marasma di titoli mediocri, ripetitivi o eccessivi, si perde il senso del videogioco stesso: in pratica, è più importante parlarne che giocarlo.
Playdate cerca di invertire questa tendenza. Con la sua modalità di rilascio a episodi, con la portabilità estrema, con la semplicità dei suoi giochi, spinge a fermarsi e a riscoprire il piacere del giocare. Semplicemente giocare.
Perché, alla fine, non c’è molto da dire sui giochi proposti. Sono pensati per divertirsi in modo immediato, per confrontarsi con gli amici sul punteggio, per ridere. E tanto basta.
Ovviamente anche Playdate ha un suo store, e consente di installare giochi acquistabili separatamente. Ce ne sono a centinaia, anche gratuiti, disponibili online. Ma questa abbondanza può “rompere” la magia che Panic cerca di costruire.
Molti di questi titoli sono esercizi di stile, esperimenti, tentativi di spingere l’hardware oltre i suoi limiti. Alcuni meritano attenzione. Ma, personalmente, posso contare sulle dita di una mano le esperienze che mi hanno davvero lasciato qualcosa.
La vera essenza di Playdate è nei giochi stagionali. È lì che questa piccola console trova la sua voce e la sua identità.
In un’epoca in cui tutto è immediatamente accessibile, scaricabile, saltabile, Playdate invita a riscoprire la lentezza, la sorpresa e anche il piacere del riscoprire il gioco come atto semplice e completo – a cui non serve altro.
Solo un colore giallo acceso, una manovella, e un’idea chiara: in una società performativa dove ogni momento deve essere riempito con qualcosa di utile e funzionale, esiste ancora spazio per un videogioco piccolo, sincero e totalmente "inutile". Ed è proprio lì che, a volte, si trova il divertimento più puro.
Uno di quei messaggi che l’intera industria – soprattutto oggi, nelle sue ossessioni di grandezza a tutti i costi – dovrebbe cogliere e fare suo.