Dieci. Il numero perfetto, la vetta irraggiungibile, la pagella scolastica che ti fa tornare a casa con un sorriso arrogante e la certezza di essere stato il migliore in classe.
Ma nel mondo dei videogiochi, dare un 10 è un gesto che brucia, divide, infiamma i forum e scatena guerre tribali da tastiera. Perché chiamare "perfetto" un videogioco è come dichiarare che il vino in cartone della Coop è superiore a un Barolo d’annata: semplicemente insensato.
Eppure, ogni tanto, spunta fuori quel voto aureo, stampato a caratteri cubitali nelle recensioni, a legittimare una nuova religione fatta di pixel e texture. E allora la domanda si fa inevitabile: dare 10 a un videogioco è davvero giusto?
Spoiler: no, non lo è. Ma non per i motivi banali che credete.
Il mito della perfezione
Partiamo dall’ovvio: il 10 rappresenta la perfezione. Nessun bug, nessuna sbavatura, nessuna caduta di tensione narrativa, nessun calo di framerate. È il voto che dovrebbe consacrare un’opera come immortale. Peccato che in oltre trent’anni di medium videoludico, la perfezione non sia mai esistita. Da che mondo è mondo, ogni titolo ha avuto i suoi difetti, anche quelli idolatrati dalle folle.
Shenmue fu rivoluzionario, epocale… ma provate oggi a giocarvi la gestione delle telecamere senza imprecare. The Last of Us Part II? Una scrittura potente, viscerale, ma pure tanti momenti meccanici ripetuti fino allo sfinimento. Elden Ring? Monumento di libertà in un soulslike, sì, ma con un level design che a volte scade nel "più grande è, meglio è".
Il 10, invece, continua a campeggiare nelle recensioni come un santino. Perfetto non è mai niente, ma noi continuiamo a dare un voto che gronda ipocrisia.
Il problema non è il gioco in sé, ma il culto malato dei numeri. Dare voti ai videogiochi è come tentare di ridurre una sinfonia di Beethoven a un punteggio da 1 a 100: un insulto all’intelligenza. Ma visto che il sistema funziona da decenni, il 10 non è mai il riconoscimento di un capolavoro, ma un atto performativo. Serve a generare click, creare conversazioni, innalzare il titolo al ruolo di totem intoccabile.
Il 10 è marketing: lo si usa come la ciliegina finale che fa vendere copie. Non c’entra la critica, non c’entra l’analisi lucida, c’entra solo il giocattolo rotto dell’hype. Perché un 9,5 non scatena flame war, non crea dibattito, non polarizza. Il 10 sì: il 10 è benzina sul fuoco della community, è "guerra santa" tra fanboy, è la parola che non puoi pronunciare senza evocare schiere di difensori pronti a immolarsi.
L’inganno del recensore
C’è poi la questione dell’onestà intellettuale. Un recensore che dà 10 a un videogioco sa perfettamente che sta lanciando una granata. Non si può nascondere dietro la foglia di fico del "ma per me è stato perfetto": se sei un critico, il tuo lavoro non è essere spettatore passivo, è sviluppare strumenti analitici. Dire "10" equivale a stendere un dogma religioso più che un giudizio.
E la cosa più grave è che molti lo fanno per paura. Paura di passare per quelli che “odiano il gioco che tutti amano”. Paura delle shitstorm di utenti e delle aziende che magari smettono di mandarti copie review. E allora ecco che i 10 piovono come coriandoli: trovata commerciale, complicità silenziosa, autoassoluzione critica.
Il recensore non vuole valutare, vuole essere inclusivo, "stare dalla parte giusta", accontentare la massa. Ma un voto dato per convenienza è un tradimento del mestiere.
Il paradosso del 10 è che non incorona, ma condanna. Appena lo assegni a un titolo, automaticamente smetti di poterlo discutere. Le critiche scompaiono, le voci dissenzienti vengono tacciate di eresia. Il gioco 10 diventa un dogma intoccabile, e qualsiasi contestazione viene interpretata come “non l’hai capito”, “sei in malafede”, “sei solo in cerca di visibilità”.
Ma i videogiochi dovrebbero essere discussi, sviscerati, criticati. La tensione dialettica è ciò che permette al medium di crescere. Se li blindiamo sotto il lucchetto del 10, rischiamo di farli regredire. Un’opera "perfetta" non cambia più, non migliora. Diventa una mummia da museo, buona solo da idolatrare.
In più, si crea l’effetto tomba: come fai a recensire il seguito? Se il primo capitolo ha già preso 10, dove lo metti un sequel migliore? A 11? A 12? È un gioco al massacro in cui gli stessi numeri collassano su se stessi.
Al netto di tutto, resta la questione filosofica: un 10 può forse avere senso se lo leggiamo non come perfezione tecnica, ma come perfezione emotiva. Il gioco che ti ha cambiato la vita, che ti ha fatto piangere, che ti ha scosso fino all’ultima cellula cerebrale. Oppure un gioco che cambia davvero le regole di mercato (e ne escono pochi, pochissimi, direi uno ogni dieci anni).
In quell’accezione, il 10 è un grido, non un voto. È la dichiarazione sfrontata che “questo gioco, per me, è stato tutto”.
I videogiochi sono un medium complesso, e ridurli a un "mi piace/non mi piace" condito da numeri è il tradimento più grande della loro natura.
Guardiamo alle opere che il gota della critica ha osannato. Quanti titoli “da 10” sono invecchiati male? GTA IV, definito capolavoro assoluto, oggi sembra un simulatore di guida rigida, con una fisica dei personaggi che frana nel grottesco. Skyrim, incensato come vette narrative e libertà assoluta, ancora oggi crasha come un ubriaco al volante.
Eppure, al tempo, 10 piovevano da tutte le parti. Perché? Perché il 10 è l’urlo del presente, funziona solo come fotografia di un sentimento collettivo. Ma un voto che non regge la prova del tempo è la prova stessa che è stato usato a sproposito.
Infine, non dimentichiamoci l’elemento più velenoso: il pubblico. Chi dà 10 non è solo il recensore pavido, ma pure il pubblico stesso che lo pretende. L’audience non vuole una recensione: vuole la conferma della propria fede. Se un giornalista osa mettere 9, viene accusato di incompetenza. Se mette 8, è “hater”. Se azzarda un 7, diventa "corrotto" o “venduto dalla concorrenza”.
E allora l’unico modo per sopravvivere in questo circo è sparare 10. L’utenza lo pretende come un risarcimento per il proprio pre-order, come un sigillo d’oro all’investimento emotivo fatto mesi prima. È un ricatto psicologico travestito da entusiasmo.
Allora che si fa?
Dare 10 non è giusto, ma abolire i voti non è nemmeno una soluzione. I numeri fanno comodo: semplificano, permettono di farsi un’idea rapida, orientano chi non vuole leggere dieci paragrafi di analisi. Ma se il direttore d’orchestra è sempre il voto massimo, la critica muore.
Forse la risposta non è eliminare i voti, ma ricollocarli. Rendere il 10 una legenda, non un voto standard. Non usarlo come scorciatoia, ma come dichiarazione di rottura: lo si dà solo quando un titolo non solo eccelle, ma ridefinisce le leggi stesse del medium.
E soprattutto, accompagnarlo con un apparato critico consapevole, che ricordi a chi legge: il 10 non è perfezione, è un segnale. Non una pietra tombale, ma un faro.
Dare 10 a un videogioco non è giusto perché nessun videogioco può essere perfetto. È un gesto che tradisce la critica, alimenta l’hype e condanna le opere all’immobilità. È una trappola semantica che illude il pubblico e deresponsabilizza i recensori.
Smettiamo di vendere il 10 come critica soggettiva. Perché se continuiamo a distribuire il perfect score a chiunque faccia il compitino con un po’ più di fumo, questa scala finirà presto per perdere significato.
E magari il vero atto rivoluzionario sarebbe proprio questo: il prossimo gioco che vi emoziona fino alle lacrime, non premiatelo con un 10. Guardatelo negli occhi e dategli un 9,5.
Perché smettiamo di venerare il mito della perfezione: l’imperfezione, alla fine, è ciò che rende i videogiochi vivi, discussi, appassionanti. E probabilmente più umani di quanto non lo siano mai stati.