L'universo di Ghost in the Shell

Avatar

a cura di DjPralla

Masamune Ota, nome reale di Masamune Shirow, è un mangaka classe ’61 di Kobe che si è fatto strada nel corso degli anni ottanta grazie a Black Magic, Dominion ma soprattutto Appleseed, opere che hanno ricevuto a loro volta adattamenti in anime oppure videogiochi nel corso degli anni. Tutto il suo immaginario ha sempre girato attorno ai temi che racchiuderemmo nel genere denominato cyberpunk: futuri dispotici, tecnologie che soverchiano l’uomo, trasformazioni del nostro mondo che partono da delle problematiche attuali e si sviluppano verso un’iperbole. Manga in cui nonostante la pesantezza dei tempi alla base, c’era sempre la possibilità di incappare in qualche situazione divertente o ironica, oppure, vista la grande capacità della sua mano nel disegnare i corpi, ci si poteva ritrovare di fronte a tavole al limite (ma anche oltre) l’erotico. Il salto però avviene nel 1989 da vita ad un nuovo filone narrativo: Ghost in the Shell.

Manga
2029, nella città di New Port City in Giappone opera una squadra altamente qualificata di ex militari e ex detective di polizia, che cercano di sventare attacchi terroristici anche intervenendo con la forza. Da qui sorge logica l’idea da parte dell’editore Kodansha di intitolare l’opera nel corrispettivo giapponese di “Squadra mobile con corazza offensiva”. In realtà Shirow per la sua opera si era per lo più ispirato al libro di Arthur Koestler, The Ghost in the Machine, in quanto i protagonisti e in generale gli essere umani di questo filone narrativo hanno abbracciato di buon grado l’avvento delle protesi cibernetiche, andando a rimpiazzare parti del proprio corpo o l’intero corpo stesso. Se rimuovi tutto ciò che fa di te un uomo con pezzi di macchina puoi ancora definirti un uomo? Se l’intelligenze artificiali sono in grado di comunicare tra loro e di esprimere opinioni possono essere considerate umane? Questi ed altri sono i quesiti che sorgono leggendo il manga, domande che la protagonista, il Maggiore Motoko Kusanagi, si pone a più riprese, in quanto lei stessa composta interamente di parti meccaniche diventando quindi un’anima (o un ghost) all’interno di una macchina. Da questi presupposti diventa molto più affine all’opera il titolo scelto dall’autore, ossia Ghost in the Shell, nome che farà solo da sottotitolo in patria ma che verrà utilizzato come primario una volta usciti dal suono nipponico. Uscito sotto forma di undici capitoli, rinchiusi poi in un unico volume uscito in Giappone nel 1991 e in Italia solo nel 2004 grazie a Star Comics, la trama segue le vicende della Sezione 9 della Pubblica Sicurezza alle prese con diversi casi, che fanno tutti riferimento al Signore dei Pupazzi (o Marionettista a seconda delle traduzioni), temibile hacker in grado di effettuare il ghost-hack ossia di introdursi talmente nel profondo del cervello delle persone tanto da poterne manipolare i ricordi della vittima e fargli compiere azioni al suo comando. Si scoprirà solo in un secondo momento che questa figura non è umana, bensì un’intelligenza artificiale che, assorbendo dati dalla rete ha preso coscienza di sé e di auto definisce un essere vivente. Nelle fasi finali Motoko assorbirà il Signore dei Pupazzi diventando così un’entità dalle capacità illimitate.
Al contrario di quanto siamo portati a pensare oggi, Ghost in the Shell in origine era un’opera che lasciava spazio all’ironia e a qualche tavola allegra. Oltre alle tavole a colori fatte di contrasti sgargianti (come i capelli blu elettrico del Maggiore) erano presenti anche simpatiche gag tra i membri della Sezione 9 oltre ad alcune scene di nudo che coinvolgevano il Maggiore in scene d’amore lesbico. Più in generale, però, Shirow è sempre stato ossessionato dal dover dare una spiegazione a tutto e dover dettagliare il funzionamento di ogni cosa; e così si possono vedere pagine e pagine del manga ricoperte di scritte che, in alcuni casi, vanno a prendere interamente lo spazio delle tavole. Spiegazioni su come dovrebbe funzionare tale tecnologia, spiegazioni su come si è arrivati a quel determinato pensiero, note su come questa scena nella realtà sarebbe dovuta essere ma è stata cambiata per accomodare gli eventi del manga. Una vena al limite dell’esagerato che vedremo sparire quando arriveremo a parlare degli adattamenti cinematografici.
Partendo dal finale sopra descritto la nuova entità creata dall’unione del Maggiore e del Marionettista lascia la Sezione 9 per lavorare in solitudine,  dividendo così le pubblicazioni in due tronconi: il primo è Ghost in the Shell 2: Man-Machine Interface in cui Motoko con le sue imparagonabili capacità di accedere alla rete porta a termine diversi casi nel corso dei sei capitoli di cui è composto il volume. La caratteristica chiave di questa nuova pubblicazione è però la tecnica con cui è realizzata: i personaggi sono sempre disegnati a mano, mentre i fondali sono realizzati a computer. Un mix unico che nel 1991 era impossibile da vedere altrove. L’altro troncone è invece Ghost in the Shell 1.5: Human-Error Processor che nei suoi quattro capitoli raccoglie alcune storie eliminate dall’opera originale e mostra il lavoro della Sezione 9 orfana del Maggiore. Anche per i seguiti bisogna ringraziare Star Comics per la pubblicazione in Italia.

Lungometraggi cinematografici d’animazione
Nel 1995 Mamoru Oshii, regista conosciuto per aver diretto tra gli altri Patlabor e in futuro il film Avalon, decise di prendere in mano il mondo creato da Shirow per portarlo sul grande schermo. Grazie a Production I.G., responsabile per l’animazione, il 18 novembre del 1995 il pubblico giapponese può assistere ad un evento senza precedenti. Le enormi spiegazioni, i colori sgargianti, gli intermezzi ironici presenti nel manga originale vengono accantonati di da Oshii che plasma un’opera fatta di silenzi, volti inespressivi e musiche suggestive che accompagnano i personaggi in una non ben specificata città futuristica dal look sporco e quanto mai cupo. L’idea del regista è quello di dare a Motoko un look più maturo e vissuto, andando a togliere tutti gli elementi che la rendevano femminile, lasciandola semplicemente femmina per definizione, un corpo freddo altamente specializzato a totale disposizione della Sezione 9. Più in generale l’idea è quella di rappresentare i cyborg come delle bambole, inespressive e prive di emozioni, tanto che nel corso del film il Maggiore non accennerà a sorrisi e non batterà mai le ciglia, finendo poi per confrontarsi contro un’entità generata dalla rete che vive effettivamente all’interno di una bambola, mettendo quindi in dubbio la sua natura umana. La trama infatti ripercorre le vicende legate al caso del Burattinaio, dando al tutto una nuova dimensione in cui la Sezione 9 è costretta a muoversi: c’è grande enfasi sulle ripercussioni umane che può avere il ghost-hack con personaggi che vedono la propria vita, i propri ricordi e la propria mentalità distrutte da un’intrusione. Un continuo confrontarsi tra umanità e meccanica, tanto da arrivare alla famosa scena dell’immersione in cui Motoko prova a spiegare la sua necessità di provare di essere viva, per non rischiare di auto definirsi un’intelligenza artificiale. Rimarrà per sempre nelle orecchie di chi ha visto il film la canzone iniziale (che poi ricorrerà nel corso della pellicola), ad opera di Kenji Kawai che ha voluto mescolare le sonorità della musica popolare bulgara con quelle dei canti corali antichi giapponesi. Il risultato è una marcia nuziale con lo scopo di per esorcizzare le negatività cantata da un coro di voci femminili giapponesi sopra una base di musica bulgara: un insieme di elementi che raccontati potrebbero sembrare un’accozzaglia indefinita e invece, presentate assieme alle immagini del film contribuiscono all’idea di questo mondo che prova a far convivere tutto e tutti, ma non ci riesce finendo per risultare grottesco ed esagerato, accennando così una critica verso l’estrema urbanizzazione su cui si basa anche Tokyo.
Un’opera che (assieme a Neon Genesis Evangelion lo stesso anno e Serial Experiment Lain nel ’98) ha ridefinito il significato di approfondimento psicologico all’interno di opere d’animazione. Un pellicola che soprattutto all’estero ha sdoganato l’animazione all’infuori del pubblico infantile segnando la rotta della scena cyberpunk di inizio secolo in quel di Hollywood. È noto come le sorelle Wachowski (al tempo fratelli) proposero ai produttori di portare Ghost in the Shell in un film con attori veri, arrivando poi al compromesso che tutti conosciamo con il nome di Matrix. Diverse scene di quest’ultimo film sono prese deliberatamente di peso dalla pellicola di Oshii e anche la presenza di Carrie-Anne Moss all’interno del cast potrebbe far pensare come lei fosse stata scelta per il ruolo di Kusanagi. Oshii è tornato a lavorare su questa pellicola nel 2008 per aggiungere diversi elementi in CG; questa versione conosciuta con il nome Ghost in the Shell 2.0 (non da confondere con Ghost in Shell 2: Innoncence di cui parleremo a breve) purtroppo non riesce a migliorare la pellicola originale, anzi, modifica delle scene inserendo una computer grafica che risulta quanto mai fuori luogo. Resta quindi consigliata la visione della pellicola originale rispetto alla versione 2.0.
In Italia sono arrivate entrambe le versione, ma il primo adattamento ad opera di Polygram Video in VHS è caratterizzato da una traduzione che parte dalla controparte inglese, andando così a generare incongruenze con la stesura originale. Molto più consigliata la visione della versione Blu-Ray ad opera di Dynit che contiene un nuova nuova traduzione e un nuovo doppiaggio.
Con uno sforzo produttivo che non solo ha visto impegnata Prodution I.G., ma anche Studio Ghibli che sono riuscite a stanziare un budget pari a 20 milioni di dollari, nel 2004 Oshii porta nelle sale il tanto atteso seguito. Per evitare di finire nel circolo fatto di sequel su sequel che stava iniziando a diventare Hollywood, il regista decide di cambiare nome all’opera, chiamandola semplicemente Innocence. Ad ogni modo per la distribuzione al di fuori dell’isola nipponica il titolo è tornato ad un più riconoscibile Ghost in the Shell 2: Innocence. Nonostante le dichiarazioni dell’eccentrico regista, le male lingue al tempo diffosero la notizia secondo la quale la produzione aveva deciso di togliere Ghost in the Shell dal titolo per via dei risultati mediocri del primo capitolo in patria, cercando così di fare gola a nuova audience. Al di là delle speculazioni, Innocence prosegue la storia lasciata in sospeso nel ’95, di nuovo attingendo ai racconti di Shirow ma rimescolandoli per l’occasione. Il risultato è un film dal look unico e inarrivabile per il tempo: i personaggi disegnati in tecnica tradizionale di fondevano con fondali ed elementi di contorno costruiti in computer grafica, lasciando allo spettatore il dubbio su cosa fosse uscito da una matita e cosa da software. Quasi a voler rimarcare ancora di più il dualismo tra umanità e macchine. La storia segue Batou alle prese con una vita difficile dopo l’abbandono del Maggiore, ma nonostante tutto sempre alle prese con un nuovo caso. In questo film però Oshii cerca di andare fin troppo oltre col suo cinema intellettuale costruendo la pellicola attorno a scene d’azione mozzafiato e citazioni dalla Bibbia, altri testi sacri o da filosofi antichi, lasciando lo spettatore annichilito mentre cerca di comporre i pezzi del puzzle. La sequenza che resta sicuramente più impressa nella memoria è quella di una immensa parata carnevalesca, composta da mastodontici carri animati che si muovo all’interno di una cadente città composta da grattaceli; una scena dal dettaglio audiovisivo talmente alto che ha richiesto agli animatori ben un anno per realizzare esclusivamente quei tre minuti. Sicuramente Innocence non è un ottimo punto d’ingresso nel franchise di Ghost in the Shell, soprattutto per via della sua cripticità che si contrappone alla voglia di mettere il lettore sempre nella condizione di comprendere ogni tavola del manga. Ad ogni modo è facile afferma che ad oggi resta uno dei lungometraggi d’animazione più ambiziosi di sempre, con un look e una realizzazione tecnica che non hanno eguali.

Serie Tv Animate
Tra un film e l’altro Prodution I.G. cerca di capitalizzare il momento producendo due stagioni di una serie tv animata dedicata a Ghost in the Shell. Quella che potrebbe sembrare una manovra di marketing è invece un salto in avanti verso qualcosa di nuovo che porterà enorme risonanza al franchise e cambierà in parte il modo di fare animazione in Giappone. Stiamo parlando di Ghost in the Shell: Stand Alone Complex, la cui seconda stagiona prenderà il sottotitolo di “2nd GIG”. Per un totale di 52 episodi, Stand Alone Complex, come tutte le altre iterazioni, pesca qua e là dai manga di Shirow per andare a creare un nuovo filone narrativo. Tornano quindi i colori e la luminosità del manga, assieme alla voglia di mettere lo spettatore nella miglior condizione possibile di comprendere cosa sta succedendo a schermo. Restano invece solide le basi fondanti come la tecnologia che ha modificato i corpi umani, la rete che connette tutti e gli intrecci politici che raschiano nel torbido. Nel corso degli episodi è possibile scoprire molto di quello che sta dietro alla Sezione 9, con interi capitoli dedicati alla vita dei vari personaggi, e per qualcuno è anche possibile scoprirne il passato. Nonostante Masamune Shirow abbia dichiarato che nessuna versione di Ghost in the Shell al suo sguardo è quella definitiva, ma ognuna va ad aggiungere elementi nella propria direzione, è facile affermare che Stand Alone Complex sia prodotto più completo, che si pone come il punto di partenza più facile per i nuovi arrivati, in modo tale da potersi approcciare a tutto il resto con un’elevata conoscenza dei personaggi, degli intrighi di trama e delle implicazioni filosofiche che derivano dalla tecnologia. Sotto la regia e la scrittura di Kenji Kamiyama (che negli anni a seguire firmerà un’altra opera eccellente come Higashi no Eden), Ghost in the Shell: Stand Alone Complex porta l’animazione giapponese ad un nuovo livello tecnico, con budget talmente stellari da diventare proibitivi anche per Prodution I.G. durante la stesura di un’ipotetica terza stagione. Gran parte della regia è profusa nel mostrare come la Sezione 9 si muova nell’ombra, studi la situazione in ogni minimo particolare e poi agisca, con azioni spettacolari che possono durare anche solo pochi secondi. Con una produzione di così ampio respiro anche le scene riservate ai dialoghi e alle spiegazioni vengono amalgamante con lo scorrere dell’azione, risultando così sempre parte del flusso e mai appiccicate per dare allo spettatore il classico spiegone. Come spesso succede per le serie tv di successo in Giappone, sono stati prodotti dei lungometraggi riassuntivi, utili per poter assorbire le informazioni fondamentali e godersi la trama orizzontale. Il primo è ovviamente sottotitolato The Laughing Man, seguendo l’arco narrativo che vede protagonista il personaggio omonimo, mentre il secondo è Individual Eleven, di nuovo a sottolineare il filone narrativo a cui si fa riferimento. A conclusione dell’arco narrativo di Stand Alone Complex c’è il lungometraggio sottotitolato Solid State Society che, forte di un budget spropositato, racconta di un caso che la Sezione 9 deve risolvere senza l’aiuto di Kusanagi la quale due anni prima ha lasciato il gruppo.
Ghost in the Shell: Stand Alone Complex non verrà ricordata esclusivamente per essere una delle serie tv animate dai valori produttivi più alti di sempre, ma anche per come questo budget sia riuscito a dare vita ad un’opera unica, densa e senza sbavature. In più può contare sulle musiche di Yoko Kanno, che solitamente si accompagnano solo ad anime di alto livello.

Original Anime Video
L’ultima categoria è quella delle produzioni che vengono commercializzate direttamente per l’home video, quindi senza passare da cinema o TV. Annunciato in pompa magna nel 2013, Ghost in the Shell: Arise venne presentato come un nuovo filone narrativo, che però cercava di spiegare il background su cui si basavano le altre storie del franchise e più nello specifico di come la Sezione 9 è venuta a crearsi. Dopo poco dall’annuncio e al seguito di diversi spot in cui si sottolineava con veemenza l’accordo commerciale con Microsoft per pubblicizzare il Surface, il primo episodio da cinquanta minuti dei cinque previsti arriva nelle case giapponesi. Nonostante si sia dovuto aspettare il 2015 per vedere la conclusione, Arise si contraddistingue per essere l’anello debole di tutto l’universo di Ghost in the Shell: benché parta dai medesimi presupposti, non riesce mai a mettere l’accento sulla tecnologia e sulle sue implicazione, diventando così una sequela di scene d’azione dall’alto impatto adrenalinico. Il Maggiore è raffigurata come una ragazzina poco più che adolescenziale poco risoluta e che viene facilmente manipolata dagli altri, nonostante dovrebbe già aver preso parte ad entrambe le guerre mondiali. Molti elementi che cercano di spiegare le origini dei personaggi vanno contro a quanto detto nel manga originale oppure in Stand Alone Complex, risultando a volte goffe e posticce. Anche la città piuttosto che sembrare una Tokyo futuristica, dà l’idea di essere Tokyo e basta, quando invece si sta già parlando di persone dal corpo completamente robotizzato e di come la rete vada oltre le barriere del pensiero umano. Non è quindi indicato per chi è alla ricerca del vero significato di Ghost in the Shell e per molti versi lascia l’amaro in bocca all’appassionato; ottimo invece se si è alla ricerca di azione ben animata.
Per provare ad allargare l’audience i cinque mediometraggi sono stati divisi per rientrare nei canoni televisivi andando così a costituire la serie Tv Ghost in the Shell: Arise – Alternative Architecture. Come ormai è diventato prassi, a chiudere anche quest’arco narrativo ci pensa un lungometraggio, questa volta dal nome Ghost in the Shell: The Rising, che pur non comprendendo Arise nel titolo si configura come caso conclusivo della tetralogia.

A mancare in questo enorme elenco è ovviamente il nuovo film holliwoodiano in arrivo nelle sale il 31 marzo 2017. Saprà Scarlet Johansson interpretare il Maggiore Motoko Kusanagi come tutti i fan si aspettano? Quanto la storia diretta da Rupert Sanders resterà fedele al franchise e quanto andrà ad aggiungere? Sono tutte domande che al momento non possono trovare risposta, ma restate sulle nostre pagine in attesa della recensione.