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Intervista a Giuseppe Mattiolo

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a cura di Doctor.Oz

Pubblicato il 10/04/2016 alle 00:00
Da qualche anno a questa parte, i videogiochi sono diventati il minimo comun denominatore di tanti mestieri ad essi collegati: partendo dal nostro lavoro – quello dei critici videoludici – passando per tutta l’enorme macchina di marketing e merchandising che vi sta dietro, e arrivando fino a quello che è all’atto pratico e il cuore pulsante dell’Industry, ossia lo sviluppo del videogioco. Proprio per comprendere meglio alcune delle dinamiche che si celano dietro all’enorme gigante dell‘entertainment moderno, ai microfoni digitali di Spaziogames abbiamo avuto la fortuna di avere Giuseppe Mattiolo, un ragazzo siciliano che ha saputo fare della propria passione un mestiere. Programmatore di alcuni titoli di grande spessore, The Evil Within tra tutti, durante un’oretta di chiacchiere su Skype siamo andati a fondo sulle motivazioni che possono spingere un ragazzo giovane, appassionato di informatica e videogiochi, ad attraversare l’oceano e sbarcare in California per coronare una passione smodata: lo sviluppo di videogiochi.
Marco: “Ciao Giuseppe, benvenuto e grazie per il tempo che ci stai dedicando. Per entrare subito nel vivo (perché le domande “scomode” arriveranno dopo, ndr) parlaci della tua formazione professionale e della scelta di andare a cercare fortuna lontano dalla tua amata Sicilia.”
Giuseppe: “Sono Giuseppe Mattiolo. Sono Siciliano, nato ad Augusta. Ho studiato presso l’Università degli Studi di Catania dove mi sono laureato in Ingegneria Informatica grazie ad una tesi sul protocollo bit-torrent per file sharing. Una volta laureato, ho iniziato il dottorato in matematica, in particolare su problemi di computer vision e computer grafica, essendo fin da sempre appassionato di fumetti, film e videogiochi. Il primo reale contatto con l’Indusrty ce l’ho avuto durante uno stage come ricercatore in visita presso la University of Southern California, dove ho partecipato a ricerche nell’ambito del rendering fotorealistico. Terminati gli studi e tornato in Europa, ho avuto l’opportunità di lavorare per Electronics Arts in Inghilterra. Ricevuta una proposta lavorativa dagli States, ho deciso di trasferirmi a Los Angeles, e al momento lavoro per The Workshop Entertainment. Qui, ho avuto l’opportunità di collaborare Shinji Mikami (lo storico creatore di Resident Evil, ndr) per un gioco che in molti conosceranno: The Evil Within“.

Marco: “Noi di Spazio siamo gente curiosa, raccontaci cosa vuol dire lavorare ad un gioco tripla-A, sia per gli aspetti positivi che per quelli negativi”. 
Giuseppe: “Un qualunque gioco, sia esso un gioco per cellulare o un capolavoro videoludico, nasce da un’idea ben precisa. Quello che cerca di trasmettere un creatore di videogiochi è un’idea precisa, una percezione sensoriale oppure una visione artistica ben delineata. Una volta messa su carta l’idea, è poi compito del team realizzarla. Per farlo, il team si divide in gruppi ben distinti e circoscritti: chi si occupa dell’infrastruttura di programmazione, chi della parte artistica, chi della modellazione grafica. I ruoli all’interno di un team sono variegati e molteplici: programmatori, ingegneri del suono, modellatori 3D, disegnatori, lighting artists, texture artists, animatori. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Quello che veramente potrebbe vincolare lo sviluppo di un titolo è, ahimè, la tecnologia di sviluppo che si possiede al momento. Ed è qui che subentrano prepotentemente l’ingegneria ed i programmatori, poiché si occupano dell’ottimizzazione degli hardware che si hanno a disposizione. Una volta che la programmazione del titolo viene avviata, comincia un processo di creazione e revisione costante tra tutti gli elementi del team che stanno partecipando alla realizzazione del prodotto. Per essere più chiari, è questo il momento in cui il team deve lavorare in totale sintonia, dove ognuno ha un compito ben preciso, amalgamato con quello degli altri. Gli elementi da controllare sono molteplici, per farvene un’idea pensate alle luci, alle texture dei materiali, alla proiezione delle ombre, alle proprietà fisiche degli oggetti contenuti in un livello, all’intelligenza artificiale e ai comportamenti dei personaggi non controllati dal giocatore, oppure ai suoni generati dagli eventi che si verificano durante la partita. Potrei andare avanti all’infinito. In pratica, bisogna controllare ogni centimetro quadrato dell’ambiente virtuale che si va creando”.
Marco: “Capisco, dunque dietro allo sviluppo anche del gioco all’apparenza più semplice, c’è un lavoro di ore ed ore, di tanti esperti. Parliamo della parte in cui sei più ferrato, quella tecnica. Cosa mi dici dei kit di sviluppo che avete a disposizione? E perché, nonostante i controlli di moltissime persone, alcuni titoli sono comunque affetti da bug vari che vengono corretti sì, ma solo grazie a patch oppure solo in seguito ad edizioni successive?”
Giuseppe: “Il discorso è lungo ed articolato. Parti dal presupposto che i kit di sviluppo che talvolta vengono forniti dagli stessi produttori di console, spesso e volentieri posseggono dei bug già alla base. Va da sé che realizzare un prodotto esente completamente da problemi tecnici, pensando a giochi molto grandi come ad esempio gli open world, è quindi utopia. In più, bisogna anche considerare i tempi di sviluppo di ogni singolo titolo, più lunghi in alcuni casi, più corti in altri. Nei giochi a cadenza annuale, come titoli sportivi tipo FIFA oppure saghe come Assassin’s Creed, la situazione è diversa proprio perché il team può lavorare su una base solida. Ciò comporta un accorciamento dei tempi di produzione e un costante e lento miglioramento del prodotto, anno dopo anno”.
Marco: “Nonostante i numerosi bug, alcuni titoli vengono additati lo stesso come capolavori. Questo mi fa pensare che il comparto artistico e quello grafico pesi di più in termini di appetibilità di quello tecnico sull’acquirente. Secondo te in quale percentuale?”
Giuseppe: “Ad essere sinceri, credo che il tutto possa essere riassunto in un 60% per il comparto artistico, che include grafica e sonoro, ed un 40% per il comparto tecnico. Di fatti, in fase di lavorazione, di solito le risorse economiche all’interno di uno studio vengono ripartite nello stesso modo. Secondo la logica del consumatore, un prodotto deve essere prima attraente e solo dopo dover funzionare al meglio.”

Marco: “La Industry ti appartiene oramai, ci sei dentro. Secondo te, quali saranno i prossimi step futuri e come vedi le attuali console fra qualche anno?”.
Giuseppe: “Ad oggi, prevedere il prossimo passo dell’Industry è facile, si chiama Realtà Virtuale. Molti studi stanno investendo tempo e denaro in progetti che vedremo a breve. Se sarà un successo oppure no è un po’ presto per dirlo; vada come vada, solleverà molto clamore e forse cambierà il modo di percepire il mezzo videoludico. Per quello che riguarda l’attuale generazione di console, posso prevedere che per qualche anno ancora, forse cinque o sei, avremo a che fare con queste macchine. Per il PC è diverso: lì si è in continua evoluzione ma al momento non ci sono enormi margini di miglioramento nel breve periodo. Dobbiamo essere pazienti ed aspettare.”
Marco: “La vita del programmatore, dentro e fuori lo studio. Come vivi i videogiochi al di fuori del lavoro?”
Giuseppe: “Questa è una domanda molto personale. Sappi intanto che nei periodi di forte stress, solitamente a ridosso di un’uscita, si è costretti a lavorare anche dodici o tredici ore al giorno, week-end inclusi. È davvero un periodo di stress fortissimo, che negli States chiamiamo crunching–time, e nel quale la fatica accumulata è tanto grande quanto la soddisfazione di veder pubblicato il proprio prodotto. Non ti nego che in questi periodi la voglia di giocare ad altro è molto poca, soprattutto perché dopo una giornata passata davanti ad un monitor, la voglia di rimettersi davanti al PC è pressoché nulla. Nonostante questo però, la voglia di videogiocare è sempre molta, soprattutto per un fattore del tutto professionale. Mi spiego. Mi piace videogiocare soprattutto a dei bei giochi perché posso ammirare con altri occhi il lavoro fatto da colleghi, in molti casi bravissimi. Lo stesso vale per i giochi non del tutto perfetti: ti indicano quali errori bisogna del tutto evitare. Poi la passione per i videogiochi c’è e ce l’hai sempre dentro: quelle sono cose con cui si nasce oppure no.”
Marco: “Cambiamo discorso e facciamo un po’ di gossip. Hai avuto l’occasione di conoscere personalmente Shinji Mikami? Che tipo di autore è?”
Giuseppe: “Personalmente, non ho mai avuto l’occasione di conoscerlo dal vivo. Ti posso dire però che abbiamo lavorato a stretto contatto con il suo studio personale, in un epistolare e fittissimo scambio di email. Ti posso dire che è una persona accorta, attenta ai dettagli e che pretende molto, moltissimo. Ama la sua concezione di videogame e vuole, giustamente, che essa sia riportata a schermo secondo la sua visione e le sue sensazioni. Un vero professionista del mestiere, come pochi altri.”
Marco: “Ora concludiamo l’intervista e andiamo un pochino sul personale. Dicci i motivi per cui qualcuno debba seguire le tue orme, e che consigli puoi dare in questo senso”.
Giuseppe: “Non nego quanto cambiare vita, città e continente sia difficile, soprattutto all’inizio. Bisogna confrontarsi con realtà con cui non si è abituati, realtà per alcuni versi completamenti distanti dalla nostra amata Italia. Ma non tutto ciò è male, perché un cambiamento del genere porta noi stessi a migliorarci di volta in volta, anche al di là dei limiti personali. Per farlo, bisogna avere pazienza, tenacia e dedizione. Per chi volesse intraprendere questa carriera, vi ricordo che il portfolio è fondamentale, perché bisogna mettere in risalto e far vedere le conoscenze tecniche ed umane accumulate nel tempo. L’esperienza va costruita passo passo dalle basi, con tanta passione e voglia di mettersi in gioco. I risultati arriveranno prima o poi, non vi preoccupate: l’importante è non arrendersi, non arrendersi mai“.
Ringraziamo Giuseppe per la disponibilità che ci ha mostrato durante questa intervista, con l’augurio di arrivare molto in alto, nella carriera che poco a poco sta costruendo. Poco importa se non ha voluto parlarci dei nuovi progetti top secret a cui sta lavorando: lo perdoniamo, sapendo che di qualunque cosa si tratti, lo sentiremo di certo quanto prima.
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