I Videogiochi come Servizi

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a cura di FraFont

Amici, siamo in tempi di grandi cambiamenti. In questa ondata di innovazione tecnologica che si muove a ritmo più che sostenuto, bisogna avere curiosità e interesse per il nuovo e il diverso. Lo so, spaventa, fa paura, qualche volta non si riesce a capire un tubo, ma, con un po’ d’impegno e altrettanto spirito critico, sono certo che potremo farci strada in questo marasma. Oggi, per fare un po’ di chiarezza, approfondiamo uno dei temi più caldi e controversi del momento: i videogiochi sviluppati come servizi, o Games as Services, perché in questo articolo useremo un sacco di parole inglesi per darci un tono. Ebbene, è da un po’ di anni che, ormai, molti videogiochi non sono più prodotti tradizionali, bensì servizi, dalla loro struttura di business al modo in cui sono concepiti e sviluppati.
 

Un videogiocatore nuovo

In quest’ultimo decennio abbiamo visto l’industria videoludica esplodere, andando in direzioni prima inimmaginabili. Non parlo solo del mercato console e di tutti i capolavori che ci hanno fatto piangere, ma anche di quello mobile o degli e-sports su pc, e dell’incredibile quantità di utenti che sono riusciti a conquistare e intrattenere. Il panorama videoludico è cambiato, ma con lui e, forse anche prima di lui, sono cambiati i videogiocatori. Da un pubblico diverso nascono nuove esigenze, in una simbiosi dinamica che genera giorno dopo giorno il nuovo volto dell’industria. Non parliamo solamente dei famosi Casual Player, ossia giocatori che prediligono sessioni di gioco brevi e disimpegnate tipicamente su mobile, ma anche di Smart Player, come spiega Elena Moschini nella sua ricerca  “Designing for the smart player”. Gli smart player sono giocatori che amano giocare ore e ore di fila ad esperienze immersive come Fallout o Untill Dawn, ma che al tempo stesso riescono ad apprezzare 10-15 minuti al giorno di giochi più leggeri come Clash of Clans o Angry Birds, per poi passare la serata a giocare un paio d’ore a League of Legends. Il mix comportamentale che oscilla tra casual e hardcore gamer è ciò che delinea in maniera dinamica lo smart player. Oggi, il mercato ha identificato bene questo tipo di giocatore e vive per servirlo, o, forse, per spennarlo.

Prodotti tradizionali vs Servizi

Ora comincia la parte che ci fa storcere il naso. I games as services generano più introiti di qualunque altro modello di gioco, tenendo il giocatore incollato in un ciclo di spesa periodico e idealmente infinito nel tempo. La più grande differenza tra un prodotto tradizionale e un gioco come servizio è infatti la sua struttura operativa. Un prodotto tradizionale genera introiti principalmente al momento del lancio, un servizio lo genera molto dopo, quando ha una base di utenti regolari che spendono sulla sua piattaforma.  In un titolo gestito in questa maniera, dopo aver rilasciato il gioco, il team continua ad essere attivo e sviluppa aggiornamenti ed espansioni, non solo bug fix e patch ma grandi contenuti aggiuntivi, sempre gratuitamente; pensiamo ad una nuova modalità di gioco League of Legend, oppure a nuove carte su Clash Royale. La struttura del servizio permette di monetizzare il giocatore nel corso del tempo e non ha bisogno di fargli pagare qualcosa a fronte del download. Per lo stesso principio, un servizio vuole avere una durata idealmente infinita, mentre il prodotto tradizionale, una volta che è stato lanciato stabilmente, lascia il team relativamente libero di sviluppare un nuovo gioco. 
Prima di addentrarci più nello specifico nella questione monetaria, però, andiamo con calma ad analizzare due grandi aspetti separatamente: prima di tutto vediamo cosa significa sviluppare un servizio dal lato dell’azienda, e poi andiamo ad analizzare quello lato del giocatore e l’influenza che questo ha direttamente sul team di sviluppo. Questo modello ha, infatti, sostanziali vantaggi e per entrambi.
 

Waterfall vs Agile nelle aziende

Nelle aziende le metodologie di gestione del progetto stanno cambiando, passando da modelli generalmente statici a modelli più dinamici. Per sviluppare i tradizionali giochi AAA, quelli con una storia emozionante e un gameplay profondo, come per esempio Quantum Break o The Witcher, si usa tipicamente una struttura di pianificazione chiamata Waterfall. Questo modello consiste nel pianificare nel dettaglio ogni singola azione della produzione del gioco, dividendo il lavoro su un periodo di tempo che solitamente si aggira attorno ai 2-4 anni. Va da sé che questo incarico ha una complessità indescrivibile poiché tenta di mettere nero su bianco i successivi anni dell’azienda settimana dopo settimana, persona dopo persona, con precisione e metodo. Se le consegne non vengono rispettate o qualcosa va storto, le opzioni sono due: o il team lavora giorno e notte per recuperare oppure tutto slitta in avanti, scatenando furibonde folle di videogiocatori con torce e forconi. Questo metodo è molto statico ma sicuramente permette di gestire meglio progetti densi e complessi su lunghissimi periodi, oltre a risolvere l’esigenza di spiegare ad un publisher il piano di azione specifico. Voi investireste 100 milioni in un progetto senza sapere vita, morte e miracoli del gioco in questione? Personalmente io ci penserei più di due volte. 
Waterfall, vista la sua staticità, genera prodotti tradizionali in maniera efficiente e precisa. Tuttavia, Per produrre servizi, e quindi giochi con le stesse logiche, si preferisce l’uso di un’altra metodologia più adattiva e dinamica, detta Agile (letto all’inglese). Agile permette di  gestire progetti di dimensione discretamente inferiore, solitamente della durata di 1-2 anni, e si basa sul concetto strategico di adattività, prediligendo l’interazione ciclica dello sviluppo. La prima versione del gioco, solitamente modulare, è prodotta in velocità; poi non si fa altro che costruire su di essa, soprattutto dopo il lancio, richiedendo un investimento monetario e umano di gran lunga inferiore. In tutto questo i vantaggi sono molti: lo sviluppo del gioco rappresenta un rischio minore e può evolvere seguendo esigenze di mercato che non erano emerse al momento iniziale, oppure il team può facilmente reiterare il processo diversificando il proprio gioco da una nuova inaspettata uscita negli store. Ricordiamo che 2 anni in un mercato velocissimo come quello videoludico non sono per niente pochi. 
In aggiunta a tutto questo, solitamente le aziende che sviluppano games as services hanno anche orari di lavoro molto più sostenibili e un bilanciamento con la vita privata che fa invidia a tutto il resto dell’industria. Quindi, ricapitolando in una frase semplice semplice (anche fin troppo semplice), si lavora tendenzialmente meno ore e si generano più introiti. Il segreto dei giochi come servizi però non è solo nella loro struttura di produzione, ma anche nel modello di ascolto e sì, anche nella monetizzazione, dell’utente. Andiamo adesso ad approfondire questo secondo aspetto. 
 

L’utente mostra la via

Come già anticipato, questo nuovo modello di gioco riesce a raggruppare numeri incredibilmente alti di giocatori diversi, spesso e volentieri online ad interagire tra di loro. L’industria che usa questi modelli basa una quantità enorme di risorse nell’ascoltare i propri utenti, proprio perché la struttura di sviluppo lo permette. Numerosi giochi sono nati proponendo una qualità che non incontrava l’interesse del suo pubblico e in pochi mesi sono diventati servizi validi a tutti gli effetti; è qualcosa che risiede proprio nella natura dei giochi come servizi, ed è uno dei valori più grandi per il giocatore. 
Quando si parla di giochi come servizi, però, entrano in gioco anche nuove meccaniche di relazione con l’utente, le quali possono essere riassunte in tre macrocategorie: adozione, ritenzione e monetizzazione. L’obiettivo primario del marketing è il medesimo dei prodotti tradizionali, portare i giocatori sul proprio gioco, e fin qui quasi niente di nuovo. Questo, però, non basta, perchè i giochi come servizi sono tipicamente gratis, detti dunque free to play, e non generano introiti diretti ad ogni download. Una volta che gli utenti sono attivi, devono rimanere abbastanza a lungo senza annoiarsi, aprendo uno spazio a strategie per favorire la ritenzione dei giocatori. Infine, più tempo passa sul gioco, più un utente è statisticamente propenso ad acquistare qualcosa, oltre ad essere esposto a pubblicità, ed è così che il gioco viene monetizzato. Avete mai acquistato una skin di qualche campione su League of Legends? Allora siete arrivati fino a quel punto. 
Non è poi così male, se il processo trasparente e chiaro. Si tratta di manipolazione del giocatore? Forse, c’è sicuramente molta psicologia nel modo in cui funzionano, ma se il gioco è gratis, ben bilanciato e duraturo, personalmente ritengo che sia uno scambio come un altro. Abbiamo potenzialmente accesso a infinite ore di intrattenimento del tutto gratis, con un pc o uno smartphone, e un team di sviluppo su cui possiamo avere influenza relativamente diretta con le nostre opinioni, almeno in potenza; tutto ciò è senza precedenti. Il problema nasce spesso quando il gioco viene percepito come ingiusto, sordo, creato solo per spremere il portafogli dell’utente, ma ricordiamoci che questi non sono buoni esempi di giochi come servizi. Quando incontriamo un titolo del genere, probabilmente il male non risiede nel modello in sé ma nel modo in cui viene usato, combinato a una scarsa o fallace progettazione. A nessuno piace essere bombardato di pubblicità, oppure spinto all’acquisto di elementi inutili ogni 20 secondi di gioco; ricordiamocelo bene, questi non sono buoni servizi. 

Quando il Pay to Play sfrutta il Free to Play

I games as services costruiti in maniera fallace non sono, però, il male maggiore, perché restano gratis e nulla ci impedisce di abbandonarli. Cosa succede, però, quando un gioco normale, pay to play, applica strategie tipiche dei free to play? Esatto, altre furibonde folle di videogiocatori con torce e forconi. Dopo aver pagato una discreta somma, si è molto sensibili ad utilizzare nuovamente del denaro ed è dunque molto facile scatenare il malcontento dei giocatori, come nel caso eclatante di Battlefront 2. Questi casi sono figli di un’industria che si sta ancora aggiustando, un po’ troppo focalizzata su formule di business e meno sull’esperienza; i grandi titoli che hanno prediletto l’esperienza dell’utente, hanno sempre fatto molti soldi e altrettanti giocatori felici, basta pensare ai prodotti di Riot e SuperCell. Parliamo comunque di un’industria che va sempre in una direzione nuova, pioniera di frontiere ancora inesplorate. Se volete la mia personalissima opinione da service designer, i giochi come servizi non vanno temuti, vanno esplorati e capiti in tutte le loro potenzialità, perché ne hanno a milioni. Nel mentre, possiamo incrociare le dita e dare la nostra fiducia alle compagnie, augurandoci che sappiano usare questi nuovi sistemi con responsabilità e maestria, perché come diceva lo zio Ben a Spiderman: da grandi poteri derivano grandi responsabilità. 

Abbiamo assaporato un’infarinatura generale di cosa vuol dire nelle industrie produrre giochi strutturati come servizi, dai vantaggi pratici sullo sviluppo a quelli monetari. Abbiamo anche visto che anche gli utenti hanno i loro vantaggi e che, nonostante siamo stati giustamente scottati da casi specifici anche recenti, spesso forse diamo la colpa dei prodotti ad un modello che offre, invece, incredibili possibilità. Siete d’accordo? Oppure la cosa non vi convince? Fateci sapere cosa ne pensate dei commenti!