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Girlboss

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a cura di Gottlieb

Pubblicato il 02/05/2017 alle 00:00

Tra la morbosa serietà di Tredici e l’attesa delle seconde stagioni di Sense 8 e Master of None, Netflix si concede anche dei momenti da sit comedy, declinazione che meglio le riesce nell’intrattenimento puro e semplice, quello da divano e coperta. Tra queste si va a inserire l’ultimissima Girlboss, una commedia di tredici episodi da trenta minuti l’uno, con una piccola vena umoristica e con l’atmosfera unica e irripetibile di San Francisco, che già di per sé fa variante alla solita e ridondante Los Angeles. 

Biopic incomingSophia è una ragazza abbondantemente indecisa sul proprio futuro, distratta, con la testa sempre tra le nuvole, incapace di badare a se stessa e mentalmente disordinata: insomma, le ha tutte. Eppure ha una grande passione per il vintage e ha una grande capacità di riconoscere un capo d’alto valore quando lo vede: uno stereotipo tipico delle donne, che hanno insita nel loro animo la capacità di essere alla moda o di saperla notare. Dopo l’ennesimo lavoro finito male a cambiare la vita di Sophia è la voglia di riscatto e di rivalsa nei confronti del mondo: mettersi in proprio e gestire un negozio su eBay pronto a distribuire vintage a tutte le persone bisognose, alla riscossa e alla ricerca del successo.La vicenda di Sophie è una storia che ci fa sorridere sin dall’inizio, soprattutto per quanto riguarda il suo essere ambientata in un mondo che ci sembra fortemente lontano. Siamo nel 2007, quando MySpace è ancora realtà e quando il fenomeno della compravendita su eBay aveva conquistato praticamente tutti, a partire dai giovanissimi: l’assenza di Facebook, la forza dei forum dove nascevano discussioni infinite, tutti elementi tecnologici che quasi non ci appartengono più e che in Girlboss tornano in auge per restituirci il senso di quella che è un’autobiografia firmata Sophia Amoruso. Ripercorrendo quella che è la storia dell’originale bussineswoman che a 23 anni si lanciò nel mondo del vintage, la serie di Netflix, firmata Kay Cannon, racconta pedissequamente, con una vena umoristica e fortemente romanzata, tutto il percorso del successo della protagonista, dall’incredibile necessità di curare un’ernia fino alle storie sentimentali che coinvolgono improbabili musicisti. 

Le perline del vestitoLa vicenda è leggera, ma ancor prima è leggiadra: Sophia è una ragazza che gestisce il proprio business in maniera completamente casuale e si concede anche dei flashback su quella che è stata la sua vita da giovanissima, accanto all’amica Annie, squinternata come lei. Due anarchiche raccontate da una città composta e ordinata. Nei tredici episodi offerti il percorso è abbastanza rapido, senza filler o contenuti che rischierebbero di diluire eccessivamente la storia di Sophia: dall’idea al successo si vola, così come tutti gli altri plot twist vengono adeguatamente inseriti con un ritmo incalzante. Il problema, se vogliamo trovarne uno a una commedia che non vuole assolutamente essere la migliore di quest’anno, è il contenuto in sé della vicenda: Sophia vende vestiti vintage, ma non mostra mai dei momenti di costruzione del prodotto, non si sofferma mai in maniera didascalica nel mostrare il contenuto di quello che è il suo successo. Tutto resta avvolto in un sogno, quello nel quale potrebbero riconoscersi le ragazze desiderose di lanciarsi in un’attività analoga. Girlboss d’altronde non vuole essere né una guida al successo né un biopic, perché anche le vicende più drammatiche, come la già citata ernia, vengono raccontate in maniera divertente, scanzonata. Inoltre l’intera San Francisco ha una visione prettamente femminile, perché tutte le componenti maschili – pochissime – sono o fortemente effemminati oppure comprimari che hanno già una posizione amorosa definita, come i rispettivi fidanzati di Sophia e di Annie. Tutto il mondo di Sophia è un’enorme città di zucchero e di canditi: non c’è nessun elemento che la porta a essere seriosa o che la spinga verso un determinato obiettivo e anche per questo non si riesce a criticare in maniera pedante. 

Nel 2016, un anno fa esatto, Nasty Gal Vintage, l’azienda fondata da Sophia Amoruso, è andata in bancarotta, chiudendo il fenomeno durato dieci anni che ha visto la protagonista di Girlboss sulla cresta dell’onda di San Francisco. Un sogno che, anche se distrutto dalla dura realtà del mondo, resta vivo in Britt Robertson, l’attrice che interpreta Sophia in maniera anarchica e scanzonata, sempre sopra le righe, ma capace di lasciarsi dilaniare anche dalle vicende che segnerebbero qualsiasi ragazza di questo mondo: l’amicizia, l’amore, la voglia di avere la meglio, la lontananza dalla madre, il rapporto col padre, sono tutti ingredienti di una vicenda che scorre rapidamente e che come unico pregio ha quello di erudirvi sulla storia di Sophia Amoruso. Divertente e nulla più.

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