Distopie videoludiche - Parte 1

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a cura di Nick

“Vanno male le vostre cose! A quanto pare, vi si è formata un’anima.”
                                                                                                                                                                      Yevgeny Zamjatin – Noi
Con queste parole il protagonista di Noi, D-503, viene messo a conoscenza della sua terribile condizione clinica: da qualche parte dentro di lui, è nato qualcosa che nessun regime totalitario può accettare. Che la si voglia chiamare anima, libero arbitrio, oppure coscienza, la libertà individuale costituisce il fulcro delle narrazioni distopiche che dai primi del novecento hanno percorso letteratura, cinema e fumetto. Il nostro medium preferito, naturalmente, non si è tirato indietro, e fin dai suoi esordi ha reinterpretato la distopia e le sue tematiche principali.
Esaminare in modo completo la storia delle distopie videoludiche è di certo un’impresa colossale: cercherò quindi di esplorare questo genere concentrandomi su un aspetto particolare, che chiunque abbia letto 1984 di George Orwell conosce bene. Sto parlando del concetto di controllo. 
Attenzione! Nel corso di questo articolo ho dovuto, in alcuni casi, trattare la trama dei videogiochi presi in considerazione. Quindi siete avvisati: saranno presenti alcuni spoiler.
“Pick up that can”
Il nostro viaggio non può che iniziare da City 17. Questo agglomerato urbano, in cui hanno inizio gli eventi di Half Life 2, è una delle molte strutture di abitazione e prigionia del genere umano, il quale si trova stretto sotto il giogo dei Combine, razza aliena che ha preso il controllo del mondo. Appena giunti in treno a City 17, ci rendiamo subito conto che gli sviluppatori hanno voluto imprimere nel mondo di gioco la pressante sensazione di essere osservati. Telecamere volanti ci spiano, la voce rassicurante del dittatore Wallace Breen pervade i saloni della stazione, mentre i soldati Combine malmenano i prigionieri e ci conducono attraverso corridoi di rete metallica e continui checkpoint. A una libertà di gameplay enorme (il gioco fu elogiato all’epoca, fra le altre cose, per il suo innovativo motore fisico) fa da contrappunto un level design volutamente opprimente, studiato per confinare i nostri movimenti e la nostra destinazione. Un momento in particolare, divenuto memorabile, illustra questa progettazione studiata fin nei minimi dettagli. Poco dopo il nostro arrivo a City 17, dobbiamo attraversare uno degli innumerevoli cancelli presidiati da guardie armate. Il soldato Combine che ci sbarra la strada decide di buttare per terra una lattina con il suo manganello, dopodiché pronuncia la famosa frase “pick up that can” e ci intima di gettarla nel bidone dell’immondizia, sotto la minaccia di essere malmenati. Noi obbediamo ai suoi ordini; lui ridacchia e ci fa passare. Questo momento, come ogni game designer sa bene, ci mostra come narrativa e gameplay funzionino al meglio quando vivono in armonia. Il gioco ci chiede di prendere confidenza con i controlli (in questo caso raccogliere e posare oggetti), ma non lo fa esclusivamente attraverso un’asettica didascalia, bensì con un dialogo che ci aiuta a comprendere le regole e le caratteristiche dell’universo narrativo, in questo caso più che mai opprimente e costrittivo.
Questa idea di limitazione della libertà del giocatore verrà poi ampliata e potenziata in due successivi titoli Valve: Portal e Portal 2. Qui, nonostante non si possa parlare in senso stretto di distopie videoludiche, il giocatore viene immerso in un contesto dove ogni forma di autonomia gli è preclusa, costretto com’è dall’intelligenza artificiale GlaDOS a muoversi da un esperimento all’altro, ridotto a nulla più che una cavia da laboratorio.
“No gods or kings. Only man”
Spostiamoci a un’altra distopia che fa della perdita di libertà uno dei suoi principali nuclei tematici: Bioshock di Irrational Games, sequel “spirituale” di System Shock 2. Nei panni di un uomo di nome Jack veniamo condotti a Rapture, una città subacquea costruita dal magnate Andrew Ryan seguendo i principi di un liberismo economico e politico sfrenato. “Niente dei o padroni. Solo l’uomo”: così dice con eloquenza un’iscrizione alle porte della città. Ma la situazione in cui versa Rapture al nostro arrivo è ben diversa dall’utopia individualista pensata dal suo fondatore. Nonostante gli eleganti arredamenti art déco e le vetrate con vista mozzafiato, il popolo di Rapture è ridotto a uno stato terribile. Anni e anni di modifiche genetiche sregolate hanno trasformato gli abitanti in un orda di creature prive di senno e le innumerevoli lotte interne hanno reso Andrew Ryan un padrone paranoico e crudele. Ma ciò che è interessante per il nostro discorso si nasconde nel rapporto che il protagonista ha con Atlas, un uomo che si offre di aiutarci, comunicando con noi a distanza durante la maggior parte dell’avventura. Questo personaggio ci guida e ci mostra quali obiettivi portare a termine, come del resto è la norma in questo genere di videogiochi. Senonché ad un certo punto, verso il termine della vicenda, scopriamo che Atlas non è chi dice di essere. Dietro la facciata di angelo custode, in realtà si nasconde Fontaine, il quale ci ha manovrato per spodestare Andrew Ryan e prendere il potere. Fin qui nulla di strano, un colpo di scena come altri, ma Ken Levine, l’ideatore del titolo, ha qualcos’altro da dirci. Ci viene rivelato che il nostro eroe è stato condizionato fin da piccolo ad eseguire qualsiasi comando gli venisse impartito usando le parole “per cortesia” (“would you kindly” nell’originale). Ogni volta che Atlas ci diceva cosa fare, dove andare, chi combattere, non era un consiglio, bensì un ordine. E a ben vedere, non è tanto Atlas che ha deciso la nostra strada fino a quel momento, quanto gli stessi sviluppatori. Pensiamoci un attimo: Jack non ha mai avuto libertà di scelta, la sua mente è stata manipolata; noi giocatori non siamo molto diversi. In un plot twist che quasi abbatte la quarta parete, Bioshock sembra affermare che quando giochiamo lo facciamo sempre seguendo gli ordini di qualcun altro, senza mai avere un autentico controllo sui nostri alter ego digitali. L’unica pecca di questa riflessione risiede nella parte finale del titolo, in cui veniamo liberati dall’influsso mentale di Atlas. Per finire il gioco, infatti, dobbiamo comunque farci condurre verso l’inevitabile conclusione: i nostri obiettivi rimangono precostituiti, dati dall’alto, e la nostra ritrovata libertà, in fin dei conti, è libertà soltanto a parole.
“The end is never…”
Questo discorso viene portato alle sue estreme conseguenze da un altro titolo che, sebbene non appartenga in senso stretto al genere distopico, ne ricalca moltissimi elementi costitutivi. Il gioco in questione è The Stanley Parable di Galactic Cafe. In questo indie game siamo messi nei panni di Stanley, un impiegato d’ufficio il cui unico compito è sedere a una scrivania e premere pulsanti del computer ogni volta che gli viene chiesto di farlo. Un giorno, però, il monitor tace e Stanley rimane senza indicazioni sul da farsi. Indeciso, decide di esplorare l’azienda, che trova però misteriosamente deserta. A questo punto entra in scena il personaggio cardine del titolo: il Narratore. Questa voce fuori campo descrive con minuziosa precisione ciò che stiamo facendo, quali sono le nostre sensazioni e i nostri obiettivi. A volte si spinge persino a prevedere quale strada sceglieremo o quale porta decideremo di varcare. Il Narratore si inserisce alla perfezione nella lunga lista di figure autoritarie del genere distopico: quando seguiamo il suo volere si rivela amichevole e paterno, in caso contrario ci minaccia, ci punisce e deride. Sotto la sua amorevole e al tempo stesso dispotica guida scopriremo che l’azienda in cui lavoriamo è in realtà un centro di controllo mentale. Davey Wreden, l’autore del titolo, sembra dirci che l’atto stesso di videogiocare è a suo modo distopico. In The Stanely Parable ogni scelta che compiamo, sia essa contro o a favore del Narratore, è una scelta illusoria. Ogni eventualità è stata prevista, ogni strada è stata costruita dagli sviluppatori perché noi la imboccassimo. Non importa se abbiamo due, dieci o cento possibilità: tutte sono state pianificate e progettate. La nostra libertà è quella di scegliere se svoltare a destra o a sinistra, ma non ci accorgiamo di essere come topi in un labirinto senza uscite. Persino un bug che ci consente di sbucare fuori dalla mappa di gioco si rivela essere posizionato lì apposta per noi, pensato per alimentare le nostre illusioni. Il titolo esplora la tensione naturale che si crea fra l’autore, il quale desidera raccontare la sua storia, e il giocatore, che spesso non accetta di essere mero spettatore degli eventi. Questo discorso giunge al culmine durante uno dei molteplici finali disponibili. Qui una voce femminile ci spiega che l’unico atto veramente libero di noi videogiocatori, l’unico che ci permette di sfuggire al controllo oppressivo degli sviluppatori, è quello più semplice possibile: spegnere il gioco e tornare alle nostre vite.
Vi do appuntamento alla seconda parte di questa rubrica, dove proverò a esplorare un altro aspetto centrale delle distopie videoludiche: la responsabilità. Per cortesia, non mancate.
Nota:
Ringrazio Vincenzo Cascone per l’idea generale dell’articolo e Marco Rizzitano per l’editing sonoro. Ci tengo a precisare che questa breve analisi non pretende di esaurire il concetto di distopia applicato al videogioco, cosa che non sarebbe di certo possibile, bensì vuole offrire spunti di riflessione sull’argomento, prendendo in esame alcuni titoli significativi. Naturalmente i giochi di cui si potrebbe parlare sono moltissimi, quindi aspetto volentieri vostre aggiunte e suggerimenti nella sezione commenti.

Da più di cento anni le distopie affollano i nostri incubi, tormentandoci con telecamere onnipresenti, polizie segrete, stivali che risuonano all’unisono. Il videogioco ha trattato spesso queste tematiche, concentrandosi in alcuni casi su un concetto che sembra connaturato all’atto stesso di videogiocare: il controllo. Sia esso quello esercitato da un terribile despota o quello, meno immediato e più sottile, dello stesso autore.