Ci sono date che rimangono impresse nella memoria collettiva degli appassionati di videogiochi. Non soltanto per l’uscita di un titolo che ha segnato un’epoca, ma anche perché rappresentano quei rari momenti in cui l’idea stessa di creare un videogioco trascende dall’essere intrattenimento e diventa atto culturale.
Nel 2025 ricorre esattamente il decennale dalla fondazione di Kojima Productions come studio indipendente. Dieci anni che non sono stati soltanto la parabola professionale di Hideo Kojima (che abbiamo intervistato nei suoi studi a maggio di quest'anno) dopo l’addio burrascoso a Konami, ma anche l’affermazione di una filosofia autoriale in grado di influenzare il medium tutto.
Perché, che lo si ami o lo si detesti, Kojima resta una di quelle figure che riescono a scatenare discussioni, entusiasmi o interminabili polemiche: un protagonista assoluto che concepisce il videogioco come il linguaggio più potente della contemporaneità.
Guardando oggi ai traguardi raggiunti dal suo studio, si può senza dubbio affermare che l’avventura intrapresa nel 2015 non è stata appena un atto di sopravvivenza, ma un vero e proprio manifesto di indipendenza creativa.
Dal trauma di Konami alla libertà
Per capire davvero la portata del decennale di Kojima Productions, occorre tornare indietro a quell’annus horribilis che fu il 2015 per l’autore giapponese. Lo scontro con Konami, culminato con la cancellazione di Silent Hills e il travagliato sviluppo di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, segnò la fine di un matrimonio professionale che sembrava indissolubile. Per molti, la forza creativa di Kojima rischiava di svanire sotto il peso dello scontro legale e mediatico.
Invece, proprio da quell’addio traumatico nacque la possibilità di ripartire. Nasceva così Kojima Productions, questa volta come studio totalmente indipendente: un logo che oggi porta con sé il fascino di una compagnia mossa da ideali artistici prima ancora che da esigenze commerciali.
E in quell’istante fu chiaro che per Hideo si trattava non soltanto di creare un nuovo team, ma di dar forma a un laboratorio creativo pronto a sperimentare linguaggi, tecnologie e simbolismi.
Il primo grande banco di prova fu Death Stranding nel 2019, titolo tanto discusso quanto cruciale. Presentato come una sorta di atto inaugurale della nuova era, il gioco non somigliava a nulla di conosciuto. Né un vero open world come quelli a cui l’industria ci stava abituando, né un’avventura narrativa tradizionale, ma una riflessione ludica sulla connessione, sull’isolamento e sul senso di comunità.
Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Léa Seydoux: volti presi in prestito dal cinema per dare carne e sangue a un’opera che alcuni definirono un “walking simulator” di lusso, altri un capolavoro assoluto. Ciò che è certo è che, nel bene e nel male, Death Stranding ha dimostrato la capacità di Kojima Productions di ritagliarsi uno spazio unico all’interno del panorama videoludico.
Perché il “simulatore di fattorini del futuro” come scioccamente definito da molti era in realtà un’opera sul senso stesso del contatto umano, qualcosa che, ironia della sorte, sarebbe diventato drammaticamente attuale con l’arrivo della pandemia nel 2020.
Lo stile Kojima
Se c’è un tratto che distingue Kojima e il suo studio, è la volontà di superare continuamente le convenzioni. Le pause registiche infinite, i momenti contemplativi, le digressioni filosofiche: tutto ciò che altrove sarebbe considerato superfluo, nei suoi titoli diventa il cuore stesso dell’esperienza.
E in dieci anni, Kojima Productions ha saputo consolidare questa “grammatica” peculiare, ibridando il medium con suggestioni prese dal cinema, dalla letteratura e persino dalla musica. Non si tratta soltanto di videogiochi, quanto piuttosto di oggetti culturali complessi, nei quali i riferimenti si stratificano e costringono il giocatore a interrogarsi continuamente sul senso stesso di ciò che sta vivendo.
Il decennio trascorso non si è certo fermato al primo esperimento. Il seguito, Death Stranding 2: On the Beach, uscito nel 2025 (e recensito qui), ha rappresentato la prova del nove per uno studio che vuole confermare la propria identità. Se il primo capitolo era una dichiarazione d’intenti, il secondo ha dimostrato che dietro la provocazione iniziale c’è una visione di lungo periodo.
Un’esperienza ancora più ambiziosa, capace di potenziare la componente narrativa senza rinunciare all’enigmaticità che contraddistingue Kojima. Si tratta, ancora una volta, di un’opera divisiva: eppure, è proprio quella polarizzazione a renderla necessaria. In un’industria spesso schiacciata sull’omologazione, Kojima Productions continua a offrire una voce fuori dal coro.
In un’epoca in cui il videogioco cerca legittimazione culturale, Kojima Productions ha incarnato quel ruolo di “ambasciatore” che mette in comunicazione i codici del cinema con quelli dell’interazione ludica. Ed è qui che il peso del decennale trova la sua vera misura.
La critica e il fanatismo
Naturalmente, non tutto è oro. Una parte consistente della critica e del pubblico continua a guardare a Kojima con sospetto, vedendo nelle sue produzioni un eccesso di autocompiacimento o un gioco di stile fine a se stesso. È vero: il rischio di cadere nell’autoreferenzialità è sempre dietro l’angolo.
Ma, come spesso accade con gli autori più divisivi, ciò che per alcuni è difetto rappresenta, per altri, tratto distintivo. Quello che non si può negare, comunque, è l’impatto esercitato. A prescindere dal giudizio soggettivo, ogni titolo firmato Kojima Productions diventa inevitabilmente uno degli eventi culturali più discussi della sua epoca.
Arrivati a dieci anni di vita dello studio, ciò che rimane evidente è come Kojima abbia incarnato per i fan la possibilità di credere ancora nell’autorialità nel videogioco. Non un prodotto pensato a tavolino da comitati di marketing, ma un’opera che porta con sé un pensiero forte, un’identità riconoscibile.
Nel mondo delle major, dove le scelte creative vengono spesso subordinate al rischio economico, Kojima Productions rappresenta quella rara eccezione dove il nome del suo fondatore è già garanzia di un’esperienza fuori dall’ordinario. Si può discutere se sia sempre un bene, ma di certo è qualcosa che il pubblico e i media non possono ignorare.
L’eredità per il futuro
Qual è allora l’eredità di questi primi dieci anni? Forse quella di aver dimostrato che, nonostante le difficoltà economiche e le pressioni dell’industria, c’è ancora spazio per studi capaci di difendere una cifra stilistica precisa. Un’eredità importante, soprattutto per le nuove generazioni di sviluppatori che vedono in Kojima non soltanto un creatore, ma un simbolo di resistenza artistica.
E se l’avventura futura continuerà a essere segnata da quella voglia di sperimentazione che ha contraddistinto Death Stranding, allora possiamo aspettarci ancora molto da un team che ha già segnato il corso del medium.
Oggi, a dieci anni esatti dalla nascita di Kojima Productions, guardiamo indietro e non vediamo soltanto un catalogo di videogiochi. Vediamo un percorso di idee, di sfide, di rischi assunti senza la garanzia di successo. Vediamo un autore che, nel panorama del videogioco globale, rimane un outsider amatissimo e detestato in egual misura, ma sempre imprescindibile.
Kojima stesso ammette spesso che per lui sviluppare un videogioco significa dirigere un film che non ha fine, perché continua a vivere nelle mani di chi gioca. Ed è forse questo il lascito più importante del decennio di Kojima Productions: l’averci ricordato che il videogioco non è mai solo un prodotto, ma può essere una forma d’arte capace di farci riflettere su chi siamo e su come viviamo.
Dieci anni non sono un punto d’arrivo, ma l’inizio di un percorso ancora tutto da scrivere. E se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che con Hideo Kojima nulla è mai lineare, nulla è mai prevedibile. Ed è proprio per questo che, mentre attendiamo le prossime opere dello studio, possiamo dire senza esitazioni: il viaggio di Kojima Productions non è che all’inizio.