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Recensione

A rose in the twilight

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Avatar di Gianluca Arena

a cura di Gianluca Arena

Senior Editor

Pubblicato il 14/04/2017 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

8

Soffermarsi sull’insuccesso commerciale di PlaystationVita in occidente, dopo anni, risulterebbe ormai stucchevole: Sony stessa ha gettato la spugna e solo grazie all’opzione cross buy si vedono prodotti di un certo peso provenienti da studi americani ed europei. Fortunatamente, in Giappone la console gode ancora di ottima salute, e proprio dalla terra del Sol Levante arrivano, con discreta cadenza, prodotti di grande valore, titoli sviluppati con budget limitati ma con le caratteristiche della macchina ospite in mente, perfettamente tarati per il gioco in movimento e un buon paio di auricolari.
A rose in the twilight è uno di questi: un puzzle platform crudele e poetico, che vi consigliamo di non perdere.
Una storia del silenzio
Evidentemente figlio della bizzarra ed affascinante visione artistica di Masayuki Furuya, già al lavoro sull’imperfetto The Firefly Diaries, A rose in the twilight può essere considerato, per alcuni versi, il successore spirituale di quest’ultimo, sebbene le due storie non siano in alcun modo interconnesse e solo alcune delle dinamiche di gioco vengano riprese.
Ciò che i due giochi hanno in comune, e che nel prodotto in esame raggiunge la sua massima espressione, è la capacità di veicolare sentimenti e storie senza che venga proferita una singola parola: qualcuno potrebbe obiettare che Nintendo ci riesce da anni, ma una cosa è raccontare dell’ennesimo rapimento di Peach da parte di Bowser, un’altra è dipingere eventi dolorosi, misteriosi, dei quali la piccola Rose, protagonista delle vicende, è inizialmente all’oscuro tanto quanto il giocatore.
L’indifesa protagonista si sveglia in un decadente castello, da sola, con una rosa che le spunta dal corpo e il dono dell’immortalità: lo smarrimento e la disperazione iniziali lasciano il posto ad un barlume di speranza quando incrocia sulla sua strada un enorme golem, che, a dispetto della mole e dell’apparenza, si rivela protettivo e collaborativo, e la aiuta a non cadere vittima delle entità malefiche e delle innumerevoli trappole sparse per il castello
Furuya-san ha fatto i compiti a casa, e si vede che parliamo di un videogiocatore appassionato prima ancora che di uno sviluppatore: con in mente esempi come quello di Ico e Yorda e la filosofia del “less is more” che ha contribuito a fare le fortune di prodotti come Journey, Limbo ed Inside, la narrativa di A rose in the twilight si svela molto lentamente, servendosi delle immagini più che dei dialoghi, del non detto più che dell’esposizione, delle domande più che delle risposte.
Lungo il cammino, spesso posizionati in angoli remoti o in stanze opzionali, ci sono dei ricordi sbloccabili, che svelano particolari non troppo secondari, e spingono alla rigiocabilità e all’esplorazione: sebbene il loro raggiungimento non sia obbligatorio, e questi si celino spesso dietro ad alcuni degli enigmi più diabolici della produzione, il consiglio è di raccattarne quanti più possibile, per arrivare a comprendere pienamente gli eventi dietro la storia della piccola Rose.
La testimonianza più evidente di quanto il gioco riesca a suscitare empatia nel giocatore viene dal dolore quasi fisico che si prova quando la sfortunata protagonista incontra la morte nelle maniere più violente: squartata, schiacciata dal peso, decapitata, precipitata da altezze eccessive.
Ogni morte di Rose dispiacerà sinceramente, perché, come la storia dei videogiochi (ma non solo) insegna, affezionarsi ad un personaggio incapace di difendersi da sé è decisamente più facile che farlo con un supereroe/macho/invincibile eroe.
La colonna sonora, il plot, le animazioni dei personaggi concorrono tutti a creare un grado di coinvolgimento ed immedesimazione eccellente, ulteriormente aiutato da un buon paio di auricolari e, magari, dal buio, come spesso accade con Playstation Vita.
A braccetto tra le spine
Al centro delle meccaniche di gioco del prodotto NIS c’è la maledizione di cui Rose è stata vittima: non solo le garantisce l’immortalità, consentendo anche il sacrificio estremo quando necessario per avanzare, ma le consente di assorbire sangue da un oggetto e trasferirlo in un altro, così da attivare leve, interruttori e risolvere i puzzle di cui l’avventura è disseminata.
Un qualsiasi oggetto rimane cristallizzato nel tempo quando svuotato del sangue: piattaforme semoventi rimangono sospese, alcuni nemici divengono statue immobili e le porte rimangono aperte, giusto per fare qualche esempio.
La semplicità di questa dicotomia consente di apprendere le regole base del gioco già dopo pochissimi minuti, e, complice una prima fase di gioco che funge quasi da tutorial, anche coloro che non si sono mai cimentati con un puzzle platformer (come il precedente, e decisamente più frustrante, The Firely Diaries) potranno affrontare senza paura il castello, a patto di mettere in gioco tempismo, capacità di osservazione ed un pizzico di pensiero laterale.
Un’altra giustapposizione fondamentale è data dalla differenza di resistenza e di capacità dei due coprotagonisti: all’estrema fragilità di Rose, che muore al semplice contatto con qualsiasi nemico e persino per una minima caduta, si contrappone la forza erculea del golem, praticamente invincibile, capace di camminare sulle spine e di bloccare tutte le creature che popolano le sale del castello (boss esclusi).
Più volte, nell’arco dell’avventura, il gioco dividerà i due compagni di viaggio, costringendo il giocatore ad aguzzare l’ingegno, mentre in altre circostanze sarà necessario avanzare palmo a palmo, schermando le debolezze di Rose con la possanza del golem: uno dei punti di forza della produzione è la varietà dei puzzle proposti, sebbene, soprattutto nella parte finale, sia avvertibile una certa mancanza di novità, derivata probabilmente dalla maggior longevità del prodotto rispetto a molti sui congeneri.
Perfetto il bilanciamento della difficoltà, che era invece carente nel precedente lavoro di Furuya-san: i frequenti checkpoint automatici e la velocità con cui è possibile riprendere il controllo di Rose dopo un game over consentono di sperimentare differenti soluzioni senza la paura di dover ripetere intere sezioni di uno stage.
I puzzle spaziano dal semplice all’impegnativo, ma, con un paio di eccezioni, la soluzione è sempre logica ed a portata di mano: nelle circostanze in cui siamo rimasti un po’ bloccati è stato sempre per nostre mancanze, quando di precisione quando di osservazione.
Il trial and error ed il backtracking sono connaturati ad una struttura simile, e i giocatori meno avvezzi a queste dinamiche tra i nostri lettori non potranno non tenerne conto: eppure,  mentre i titoli di coda scorrevano, abbiamo avuto la sensazione di aver vissuto un’esperienza ludica meritevole, ben dosata, in cui nessun ingrediente prevarica in maniera eccessiva sugli altri e il risultato finale è maggiore della somma delle parti (stile grafico, gameplay, substrato narrativo).
Tre colori e un incanto
Lo stile artistico di A rose in the twilight è sublime, ed è uno dei principali responsabili della riuscita atmosfera di gioco: tre colori si spartono la scena e concorrono a creare un unicum tra la mera parte visuale e quella ludica.
Come spiegato, il rosso ed il bianco designano le aree svuotate dal sangue e quelle che invece ne sono piene, ma c’è anche il nero del palazzo a fare da terzo incomodo: tutto ciò che è arredamento, che non influisce direttamente sulle dinamiche ludiche è nero, a voler simboleggiare l’oscurità incombente e il perenne crepuscolo che sembra gravare sulle ali della magione.
Come per il comparto narrativo, Furuya-san ha percorso la strada del minimalismo, ottenendo risultati altrettanto lusinghieri: l’impressione che il titolo restituisce è di un piccolo diorama dai colori sbiaditi, pronto ad accendersi di rosso come un taglio da cui sgorga una goccia di sangue, esaltato dalle mai troppo lodate qualità dello schermo OLED del primo modello di Vita, utilizzato per la recensione.
Ogni angolo del castello custodisce segreti dietro ad una coltre di spine, nessun nemico ha pietà di una ragazzina indifesa ed ogni scala può portare, alternativamente, alla soluzione del prossimo puzzle o ad un vicolo cieco: un brivido corre dietro la schiena ogni volta che si si avventura nell’ignoto, soprattutto quando l’ultimo checkpoint è lontano qualche minuto.
Un accompagnamento musicale di grande qualità, seppur non molto vario, punteggia le fasi di esplorazione e aumenta i battiti quando, invece, ci si trova dinanzi ai boss o ad un passaggio particolarmente ostico, tra piante carnivore e dirupi scoscesi.
La nostra prima run ci ha portato via poco più di otto ore, spese tra un puzzle e l’altro ed aumentate dalla voglia di esplorare e dalla scarsa velocità di crociera dei due protagonisti: i più frettolosi potranno raggiungere i titoli di coda anche in sette ore o poco meno, ma, nel contempo, i più riflessivi potrebbero dedicarsi alla raccolta di tutte le memorie o ad una seconda run.
Considerando il prezzo richiesto, insomma, i contenuti non mancano di certo.

– Racconta una bella storia con pochissime parole

– Enigmi ingegnosi ed impegnativi…

– Trial and error mai eccessivo né frustrante

– Stile visivo incantevole

– Ritmo lento e una buona dose di backtracking

– …con un paio di eccezioni

8.0

A rose in the twilight è poesia: una poesia sussurrata con un filo di voce da un palcoscenico assai poco frequentato come quello di PlaystationVita, ma pur sempre poesia. Il componimento non è perfetto, inciampa, a volte, nel trial and error (sebbene assolutamente non ai livelli di The Firefly Diaries), in una buona dose di backtracking e in un ritmo tutt’altro che travolgente.

Nondimeno, il prodotto NIS è capace di proporre enigmi freschi, impegnativi ma mai frustranti, e, soprattutto, di farsi latore di una storia delicata, tragica e amara, che merita tanto di essere raccontata quanto di essere goduta.

Molto probabilmente l’ultima fatica di Furuya-san non cambierà il destino della sfortunata console Sony, ma di certo ne allunga la lista dei titoli meritevoli, da recuperare senza troppi indugi e godere con gli auricolari in una sera di pioggia.

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