Nel corso dei primi anni 2000, quando Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty era ancora in sviluppo e Hideo Kojima stava ridefinendo il concetto stesso di “narrazione interattiva”, un’occasione incredibile sfiorò lo studio giapponese. Secondo una recente intervista pubblicata da Time Extension, il leggendario game designer avrebbe avuto la possibilità di realizzare un adattamento videoludico ufficiale di The Matrix. L’idea, racconta l’ex vicepresidente delle licenze di Konami Digital Entertainment, Christopher Bergstresser, nacque direttamente da Lana e Lilly Wachowski, registe e creatrici dell’universo cyberpunk più iconico del cinema contemporaneo.
“Le Wachowski erano grandi fan di Kojima”, ha spiegato Bergstresser, ricordando il periodo in cui lavorava fianco a fianco con il creatore di Metal Gear. “Ricevemmo una chiamata dalle Wachowski, che volevano incontrarlo di persona. Così vennero da noi con il loro concept artist e dissero chiaramente: ‘Vogliamo che tu realizzi il gioco di Matrix. Puoi farlo?’”. Un invito che, a quanto pare, Kojima accolse con grande entusiasmo.
Secondo Bergstresser, il regista giapponese mostrò un forte interesse per il progetto, vedendovi probabilmente una straordinaria opportunità per esplorare temi che da sempre lo affascinavano: la simulazione, la realtà artificiale, il controllo delle informazioni, la natura dell’identità. In altre parole, tutto ciò che The Matrix e Metal Gear avevano già in comune a livello filosofico e narrativo.
Ma l’idea si spense sul nascere. Konami disse no. Nonostante l’interesse di Kojima e il prestigio della collaborazione, la dirigenza dell’epoca preferì non impegnare il team su un progetto legato a una licenza cinematografica, probabilmente per non deviare risorse e attenzione dal colossal interno che era Metal Gear Solid 2. “Non c’era abbastanza entusiasmo ai piani alti”, ha spiegato Bergstresser, sottolineando che la casa giapponese non era pronta a scommettere su un franchise occidentale così atipico.
È un “what if” che oggi fa inevitabilmente riflettere. Kojima, che già allora stava sperimentando linguaggi visivi, tematiche post-umane e strutture narrative non lineari, avrebbe probabilmente realizzato un Matrix interattivo molto più visionario e concettuale di qualsiasi tie-in hollywoodiano dell’epoca. Forse addirittura un precursore di quel tipo di narrazione ibrida che avrebbe poi definito la sua carriera con Metal Gear Solid 2, 3 e, decenni dopo, con Death Stranding.
Ironia della sorte, mentre Konami rinunciava al progetto, Enter the Matrix (2003) veniva affidato a Shiny Entertainment, con un risultato tutt’altro che memorabile. Ma immaginare cosa avrebbe potuto fare Kojima con l’universo creato dalle Wachowski resta uno di quei sogni perduti che ogni fan del game design più autoriale fatica a dimenticare. Perché, come accadde spesso nella carriera del Maestro, anche questa volta la realtà commerciale finì per vincere sulla visione artistica.
E chissà: in un’epoca in cui il confine tra cinema e videogioco si fa sempre più sottile, magari il “Matrix di Kojima” non è morto davvero. Forse dorme ancora, in qualche concept book o in un sogno interrotto, in attesa di essere risvegliato nel modo più inatteso possibile.