Immagine di Ghosts’n Goblins, cavalieri in mutande | Parte 3: gli spin-off
In Evidenza

Ghosts’n Goblins, cavalieri in mutande | Parte 3: gli spin-off

Ultima puntata della nostra retrospettiva dedicata a Ghost & Goblins. Andiamo alla riscoperta di tutti gli spin-off ambientati in questa appassionante ambientazione.

Avatar

a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Bentornati alla retrospettiva su Ghosts’n Goblins, la serie di videogiochi che ha insegnato a Dark Souls come essere difficile. Nelle puntate precedenti abbiamo ripercorso gli esordi del brand e il suo consolidamento, un percorso iniziato negli anni Ottanta e proseguito fino ai giorni nostri. Ma se la storia della principessa Prin Prin e del suo cavaliere in boxer Arthur si può dire (almeno per ora) conclusa, non è l’unico racconto che in questi trent’anni è stato ambientato nell’oscuro universo di Ghosts’n Goblins. In questa terza e conclusiva puntata parleremo delle opere derivate: le avventure di un gargoyle e il cavaliere successore spirituale di Arthur.

Anche i gargoyle piangono

Appena un anno prima di Super Ghouls’n Ghosts viene terminato un progetto parallelo, partito dall’idea di far impersonare un personaggio particolare: il Red Arremer. L’odiosissimo demonietto volante color rosso acceso era stata una delle principali minacce di Arthur nel corso delle sue avventure, e la Capcom (sotto la produzione dell’artefice originale Tokuro Fujiwara) lo fa diventare protagonista. Ne nasce quindi Gargoyle’s Quest: Ghosts’n Goblins (Reddo Arima Makaimura Gaiden) che arriva nel 1990 per il Game Boy. Lo sforzo del gioco è particolare, anche e soprattutto per il brand a cui appartiene. Si interpreta infatti il demone Firebrand (diventato gargoyle nella localizzazione occidentale per evitare riferimenti “scomodi”) sia in sezioni platform che inedite parti con visuale a volo d’uccello, che fanno particolarmente capo all’ondata di JRPG vistasi negli anni immediatamente precedenti. La maggior parte dell’azione però si consumava in classiche sezioni a scorrimento orizzontale, dove la capacità del protagonista di volare (con tutti i suoi limiti) apriva nuove strade verticali al platform. Inutile dire come il gioco per i tempi era comunque originale (pur evidente la sua ispirazione ai Castlevania) e insisteva gradevolmente sulla componente più horror del franchise, cosa che lo portò a recensioni assai lusinghiere da parte della critica specializzata.

Comprensibilmente il successo significò sia la produzione di un sequel sia la sua migrazione su piattaforme più performanti: due anni dopo arrivò Gargoyle’s Quest II (Reddo Arima Tsu) su NES che riutilizzò la struttura consolidata dell’esordio arricchendola con una grafica notevolissima per gli standard del NES. Stavolta i giudizi furono meno entusiastici, ma il gioco venne convertito anche per Game Boy nel 1993. Entrambi i giochi avevano una premessa particolare: erano ambientati nel Ghoul Realm, realtà separata dal mondo umano e origine di tutte quelle creature che popolarmente abitano il genere horror. Tra l’altro il secondo Gargoyle’s Quest terminava con Firebrand incaricato dal suo re di andare a colonizzare il neonato Human Realm, nei fatti provando a giustificare la sua presenza negli originali Ghosts’n Goblins. L’ultimo sprazzo si ebbe su Super Nintendo con Demon’s Crest (Demonzu Bureizon Makaimura Monsho-hen) del 1994, che approfittò dell’ormai tramontante generazione 2D per esibire una grande grafica, anche in virtù della conoscenza tecnica maturata da Capcom in quegli anni. Ancora una volta Firebrand riprendeva il suo percorso di crescita affrontando e sconfiggendo i suoi simili alla ricerca di sei pietre del potere, e stavolta la sua vicenda poteva concludersi in tre differenti modi (due più uno segreto). Di tutti questo fu probabilmente il videogioco che più amplificò la componente tetra, oscura e grottesca del mondo di GnG, ma proprio a causa di questo non fu un gran successo commerciale.

Vado al Maximo

Mentre la (breve) trilogia ferale del Red Arremer tramontava insieme al Super Nintendo, ancora nessuno cercava di far genuinamente sbarcare il mondo dei “Fantasmi e Goblin” sulla “generazione PlayStation”. Tali anni vengono infatti saltati, e solo all’inizio degli anni Duemila Capcom rivela (in modo per somma parte inaspettato) Maximo: Ghosts to Glory. Pubblicato nel 2001 e sviluppato dagli americani di Capcom Digital Studio con l’apporto del mangaka Susumu Matsushita per il disegno dei personaggi, fin dall’inizio il gioco si presenta come diretto successore spirituale di Ghosts’n Goblins. La premessa del gioco è appena più approfondita del suo mentore: Maximo il cavaliere buono torna dalla guerra solo per scoprire di essere stato detronizzato dallo stregone Achille. Quello che un tempo era suo fidato consigliere ha sposato Sophia (promessa a Maximo stesso) e ha saccheggiato l’oltretomba per ottenere le anime utili a costruire un esercito di morti. Maximo ovviamente non può nulla contro il perfido stregone, ma dopo essere stato sconfitto si ritrova a colloquio direttamente con la Morte. Il Mietitore, schifato dall’operato di Achille e spaventato dall’idea di divenire disoccupato, gli propone un patto: lo farà tornare nel mondo mortale a condizione che egli sconfigga il loro nemico comune. Ciò è la premessa per un viaggio lungo cinque mondi (cimitero, palude, cimitero navale, reame spirituale e castello Maximo) all’interno di ciascuno dei quali completare quattro livelli e sconfiggere un boss che custodisce una delle quattro Incantatrici. Solo tutte insieme potranno far raggiungere a Maximo un livello di potere pari a quello della sua nemesi. Allo stesso modo una volta finite le vite il signor Morte tornerà a reclamare l’anima dello sventurato cavaliere, e l’unico modo per sfuggire a un altrimenti inevitabile Game Over sarà di corromperlo con apposite monete raccolte (faticosamente) durante i livelli.

Il tutto per fare da cornice a un’azione platform rigida e massiccia, dove il cavaliere è impacciato dall’armatura e i colpi di spada e le parate vanno calcolati con cura. Ogni equipaggiamento di Maximo ad eccezione della spada è infatti deperibile, e se la perdita dell’armatura lo lascia (familiarmente) in boxer ma è rimediabile con poco, perdere lo scudo o le mosse accumulate fa impennare la sfida e la potenziale frustrazione. Il rischio di precipitare in una spirale di errori, perdita di risorse e ulteriori errori è in agguato in ogni momento, cosa che rende Maximo: Ghosts To Glory un’odissea lacerante. Una difficoltà subdola e severa, una sfida tale che pure per azioni essenziali come salvare la partita o viaggiare verso un altro “mondo” (hub) pretende cento monete d’oro. Ma è il prezzo da pagare per un’estetica accattivante, che tratteggia con ibrido nippo-americano un Medioevo europeo quattrocentesco intinto nell’inchiostro horror. Il gioco è quindi profondamente di nicchia, ma la scelta dei Digital Studios si rivela azzeccata e produce un buonissimo successo. Quella che però pare una storia del tutto autoconclusiva ha un inaspettato e sconvolgente colpo di scena: sconfitto Achille Maximo si riunisce con Sophia, ma all’improvviso lei si trasforma in un orribile mostro blu. L’eroe affronta e sconfigge anche quest’ultima minaccia e poi si accascia sul trono, distrutto dal dolore. Solo l’intervento di Morte gli fa capire che il suo ultimo scontro non era con la moglie trasformata, ma contro un demone sotto mentite spoglie. Capendo che la sua amata è ancora viva, Maximo decide di ripartire alla sua ricerca con Morte a fianco.

Il migliore amico della Morte

Giustamente convinta delle capacità della loro sussidiaria Digital Studio, Capcom affida loro la produzione di un sequel. Nel 2003 esce quindi Maximo vs. Army of Zin, di nuovo su PlayStation 2 ma profondamente cambiato. Qualche mese dopo la sua battaglia con Achille, Maximo si ritrova a contrastare strani costrutti umanoidi che stanno devastando un villaggio. Con l’aiuto di Morte ben presto viene a sapere che questi mostri di metallo sono mossi da anime ancora una volta sottratte dall’Oltretomba e capisce che si tratta dell’Armata di Zin. Questa piaga era stata sigillata nel baronato di Hawkmoor (regno confinante con quello dello stesso Maximo) ma qualcuno l’ha misteriosamente liberata. Per quanto nei fatti decisamente basica, la trama di questa seconda avventura del cavaliere si discosta decisamente dal contesto rigidamente medievale del suo “mentore” Arthur. Lo sforzo degli sviluppatori è infatti quello di costruire una vicenda richiamante il fantasy televisivo degli anni Ottanta, ampliando il contesto fissato col capitolo d’esordio e rendendo il mondo di Maximo meno “sospeso nel vuoto”. Ciò avviene costruendogli attorno una topografia (i livelli stavolta sono selezionabili cronologicamente da una mappa) e una recitazione più convincente con un utilizzo più esteso della CG. Un compito che riesce perfettamente, e che ancora oggi non pare invecchiato di un giorno. Anche i filmati realizzati col motore di gioco sono godibili grazie al labiale perfetto e a una regia più fantasiosa. Il parlato viene lasciato in inglese, e per molti è un bene perché il doppiaggio italiano del predecessore, per quanto paradossalmente più a sincrono di quello inglese, aveva coinvolto attori non professionisti con conseguenti dizioni non perfette (lo stesso Maximo aveva una palese inflessione toscana).

Da un punto di vista del gioco Maximo vs. Army of Zin fece ugualmente di tutto per differenziarsi dal predecessore, eliminandone gli elementi volutamente più “rigidi” per una decisa virata verso l’action più puro. Spariscono le abilità ottenute dai nemici sconfitti e l’usura degli equipaggiamenti differenti dall’armatura, il moveset di Maximo viene ampliato con addirittura un contatore combo. La stessa atmosfera generale ne risente, perdendo gli accenni horror per trasformarsi in un genuino heroic fantasy. Idee di design quali il salvataggio degli innocenti dai mostri e il rendere le ricompense proporzionate alla bravura nell’abbattere gli Zin rendono ancora più evidente questa virata. Per quanto ancora adesso di una solidità invidiabile (complice anche l’illuminazione più convincente e una bella colonna sonora) insieme all’horror se ne va purtroppo un altro pilastro, quello della difficoltà. Pur non essendo facile, la sfida offerta da Maximo vs. Army of Zin non è neanche lontanamente paragonabile al predecessore. Il gioco si riprendeva solo nel penultimo livello, che a oltre essere il più lungo era anche quello più ostico per i salti e le quantità soverchianti di nemici. E come sarebbe successo con Ultimate Ghosts’n Goblins, il successo non arrise a questo cambiamento. Il gioco non riuscì a ripetere il successo del precedente (arrivato all’edizione Platinum). Malgrado il finale aperto e un terzo episodio della saga già in lavorazione, il sogno finì nel 2004 quando questo ipotetico Maximo 3 venne definitivamente cancellato.

Siamo arrivati alla fine anche delle opere derivate di Ghosts’n Goblins. Se Demon’s Crest è sparito nel buio, la vicenda di Maximo ha debuttato in maniera inaspettata. Il cavaliere buono e sempre in boxer ha iniziato come successore spirituale del suo mentore Arthur, per poi intraprendere una strada molto diversa. All’abbassamento della difficoltà è corrisposto l’ampliamento del contesto e una narrativa più sentita, che nel suo essere meno smaccatamente fiabesca riproponeva l’idea del cavaliere come simbolo di giustizia. Ma neanche stavolta il destino ha sorriso a questa figura, e la sua storia rimane incompiuta. Non resta che sperare che Capcom ripeschi dal cilindro quella che è la loro ennesima proprietà intellettuale dimenticata. E considerando i diversi “revival” degli anni Novanta che avvengono oggi, forse è solo questione di tempo prima che questi cavalieri concludano la loro erranza.

Voto Recensione di Ghosts’n Goblins, cavalieri in mutande | Parte 3: gli spin-off - Recensione


-

Commento

Siamo arrivati alla fine anche delle opere derivate di Ghosts’n Goblins. Se Demon’s Crest è sparito nel buio, la vicenda di Maximo ha debuttato in maniera inaspettata. Il cavaliere buono e sempre in boxer ha iniziato come successore spirituale del suo mentore Arthur, per poi intraprendere una strada molto diversa. All’abbassamento della difficoltà è corrisposto l’ampliamento del contesto e una narrativa più sentita, che nel suo essere meno smaccatamente fiabesca riproponeva l’idea del cavaliere come simbolo di giustizia. Ma neanche stavolta il destino ha sorriso a questa figura, e la sua storia rimane incompiuta. Non resta che sperare che Capcom ripeschi dal cilindro quella che è la loro ennesima proprietà intellettuale dimenticata. E considerando i diversi “revival” degli anni Novanta che avvengono oggi, forse è solo questione di tempo prima che questi cavalieri concludano la loro erranza.