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Pro
- Romero si spoglia di ogni mito e racconta tutto senza filtri.
- La scrittura è vivida, cinematografica, autentica.
- Mostra come il videogioco nasca dalla vita vera, non solo dalla tecnologia.
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Contro
- Chi cerca dettagli sullo sviluppo di DOOM o Quake potrebbe restare deluso.
- Alcune pagine sono dolorose da leggere.
- Alterna momenti travolgenti ad altri più riflessivi e statici.
Il Verdetto di Cultura POP
Ci sono libri che raccontano una carriera. E poi ci sono libri che raccontano una vita. Doom Guy: Life in First Person di John Romero appartiene alla seconda categoria, e ne esce con le mani sporche di sangue, di sabbia e di memoria.
Non è un’autobiografia nel senso canonico del termine, ma piuttosto una lunga confessione: la resa dei conti di un uomo che ha costruito mondi virtuali in cui sparare ai demoni era più semplice che affrontare i propri.
Per chi è cresciuto negli anni Novanta, il nome di John Romero non è solo un nome. È un’eco. È la promessa di un computer che ronzava sotto la scrivania, del floppy che caricava DOOM, del primo livello di E1M1 che si apriva come un portale verso l’inferno e verso un’idea di libertà digitale.
Romero è stato l’architetto di quella rivoluzione, il demiurgo che ha trasformato un’ossessione adolescenziale in un’arte che avrebbe definito un’epoca. Ma il suo libro non parla di questo, o meglio, non solo.
Il figlio del destino
Sin dalle prime pagine, Doom Guy prende a pugni ogni aspettativa. Non c’è la celebrazione del “rockstar developer” con i capelli lunghi e la Ferrari rossa, non c’è la cronaca trionfalistica della Silicon Valley in salsa texana. C’è invece un bambino abbandonato nel deserto dell’Arizona da un padre ubriaco, e un fratellino che piange al suo fianco. C’è la polvere del Sonora, i colpi della cintura, le voci spezzate di una madre che sopravvive alla violenza.
È un inizio che disorienta e commuove, e che rende subito chiaro quanto Romero non voglia soltanto raccontare la storia di DOOM, ma di come quel gioco (e tutto ciò che lo ha preceduto) sia nato da un inferno reale.
La forza del libro sta proprio qui: nel modo in cui la memoria si mescola al codice, la povertà alla creatività, l’abuso all’immaginazione. Romero possiede una memoria assoluta (l’ipertimesia) che gli permette di ricordare ogni istante della sua vita con precisione maniacale.
Ma quella che potrebbe sembrare una benedizione, per lui è anche una condanna. Ricorda tutto: gli odori della casa di nonna Suki, il colore del deserto, il suono della voce del padre quando passava dall’essere affettuoso al diventare un mostro. Eppure, da quella mente piena di dolore, nascerà una delle più potenti macchine di creazione che l’industria dei videogiochi abbia mai conosciuto.
Leggere Doom Guy significa assistere alla costruzione lenta e dolorosa di un’identità. Romero è il figlio di un minatore messicano e di una ragazza bianca di Tucson, cresciuto in una famiglia spaccata dal razzismo e dall’alcol. Da quella miscela tossica nasce la sua fame di evasione.
Il piccolo John non aveva giocattoli: aveva sassi, bastoni, e un deserto da trasformare in campo di battaglia. È lì che nasce il game designer: non davanti a un monitor, ma nella necessità di inventare un mondo in cui le regole non le decide nessun adulto, in cui la sopravvivenza dipende dall’immaginazione.
Romero racconta tutto questo con una voce limpida, mai compiaciuta. Non cerca compassione, ma comprensione. Ogni episodio traumatico non è una ferita esibita, ma un pezzo di codice sorgente da cui far girare un nuovo livello della propria vita. Si sente, in ogni pagina, che questo libro nasce da un’urgenza autentica: quella di spiegare, finalmente, che dietro a DOOM non c’era solo l’adrenalina, ma anche la catarsi. Che ogni demone ucciso a colpi di shotgun era una metafora della rabbia, della paura, della violenza subita e poi sublimata in pixel.
Quando il racconto arriva agli anni dell’adolescenza, il tono cambia: dalla tragedia familiare si passa all’epica della scoperta. È qui che Doom Guy diventa irresistibile anche per chi vive di videogiochi. Romero scopre i primi computer, le riviste di programmazione, le sale giochi.
Il flipper diventa la sua prima “interfaccia utente”. La logica meccanica del gioco fisico si trasforma nella logica del codice. Da quel momento, la strada è segnata: scrivere videogiochi diventa non solo un mestiere, ma un atto di redenzione.
Romero non si assolve, ma non si flagella nemmeno. Quando racconta il fallimento di Daikatana (il progetto che lo trasformò da leggenda a bersaglio mediatico) lo fa con un’onestà disarmante. Non c’è la difesa dell’artista incompreso, ma il riconoscimento lucido di una ferita d’orgoglio. È un momento in cui il lettore, anche chi non conosce la storia dell’industria, percepisce quanto la cultura del successo tossico degli anni Novanta sia stata devastante.
Quell’immagine di Romero “rockstar” che gridava “John Romero will make you his bitch” non era solo una trovata di marketing: era l’ennesimo riflesso di un bambino che aveva imparato che la forza, anche quella simbolica, era l’unico modo per non essere abbandonato di nuovo.
Il libro, a tratti, si legge come una lunga lettera d’amore. Verso i videogiochi, certo, ma anche verso la famiglia che l’ha salvato dal ripetere gli errori del passato. Quando parla della moglie Brenda, il tono diventa tenero, quasi pudico. Lei è la prima persona che lo capisce davvero, che lo accetta con tutte le sue ossessioni, i suoi traumi, la sua fame di creazione.
È con lei che Romero trova finalmente un equilibrio, e non è un caso che dedichi il libro a lei e ai giocatori: due facce della stessa salvezza.
C’è una sincerità spiazzante nel modo in cui Doom Guy racconta la relazione tra arte e dolore. Romero non costruisce un mito, lo decostruisce. Mostra come dietro ogni “genio” ci sia una serie infinita di micro-ferite, di compromessi, di notti insonni davanti a uno schermo che non serve solo per creare un livello, ma per non pensarci troppo. In questo senso, la sua autobiografia è un atto politico: ricorda a tutti che il videogioco non nasce in laboratorio, ma nella vita.
Che non è un algoritmo, ma un linguaggio umano, profondamente umano, capace di metabolizzare la sofferenza e trasformarla in gioco.
Lo stile del libro è diretto, quasi cinematografico. Romero scrive come programma: in modo pulito, essenziale, con loop di ricordi che si richiamano e si chiudono perfettamente. Il ritmo non cala mai, nemmeno nei momenti più intimi. Eppure, nonostante l’apparente semplicità, ogni frase contiene un sottotesto di malinconia, come se l’autore avesse paura che la memoria (anche quella più perfetta) non basti mai a salvare davvero ciò che amiamo.
Vale la pena leggerlo?
Per chi ama i videogiochi, Doom Guy è anche un documento prezioso: racconta da dentro un’epoca in cui il medium si inventava da sé, con ragazzi che programmavano di notte per sfidare i limiti dell’hardware e del sonno. Ma la vera grandezza del libro è che funziona anche senza joypad. È una storia universale sul diventare adulti, sul trasformare il dolore in spinta creativa, sull’imparare a non farsi definire dalle proprie origini.
A fine lettura, resta addosso la sensazione di aver conosciuto davvero l’uomo dietro il mito. Non il “game god” dei titoli altisonanti, ma un bambino cresciuto in un barrio messicano che ha usato il codice per costruire un rifugio. Doom Guy: Life in First Person non è solo la storia di come si è fatto un gioco. È la storia di come si è salvato un uomo.
E se oggi, trent’anni dopo, accendiamo ancora DOOM e ci perdiamo nei suoi corridoi digitali, forse è perché quei demoni non appartengono solo al videogioco, ma anche a noi. Forse, come Romero, giochiamo per lo stesso motivo per cui scriviamo, ricordiamo, sopravviviamo: per trovare un modo di guardare in faccia l’inferno e continuare a camminare.