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a cura di Phoenix

Pubblicato il 24/12/2013 alle 00:00

Avevo tredici anni quando Planescape: Torment mi fu regalato, da mio fratello, che sapeva quanto amassi i giochi di ruolo e le ambientazioni fantasy. Studiavo inglese, a scuola, a casa, in famiglia. Ma quell’inglese era davvero troppo. Quei dialoghi erano troppo complessi, metafisici, filosofici. Dialoghi che parlavano di bene, male, neutralità. Mio fratello mi aveva portato un regalo bellissimo, e io gli volevo troppo bene per dirgli che non potevo giocarci. A quel tempo né lui, né io sapevamo dove mi avrebbe condotto la vita, né a quali studi mi sarei dedicato; fatto sta che conservai gelosamente quel gioco, e dopo un po’, inesorabilmente, me ne dimenticai. Sette anni più tardi un’immagine riaffiorò alla mia mente, e, in un attimo, realizzai che dopo tanto tempo, e in virtù degli studi che avevo cominciato, ero ormai pronto ad affrontare quel gioco, a comprenderlo in ogni sua parte. Era ancora lì, dove lo avevo riposto con tanta amarezza. Ancora oggi, guardandomi indietro, non posso che vedere quel regalo come un gesto profetico e, nello stesso tempo, paradossalmente troppo precoce.
Una digressione, la mia, che serve a giustificare il motivo per il quale continuerò sempre a pensare che Planescape: Torment sia un gioco stupendo, magnifico, immortale. Così, avevo circa vent’anni quando mi immersi in questo gioco di ruolo, eppure mi sentivo come se ne avessi tredici, ancora una volta; e non appena ebbi modo di riabbracciare mio fratello dissi, di nuovo, dopo sette anni:
“Grazie“
“Di cosa?“
“Del tuo regalo!“
Lui sorrideva, fingendo di capire a cosa mi stessi riferendo. Non era importante, poiché, in fin dei conti, non era vero, non era per il regalo in sé che lo stavo ringraziando, bensì per le emozioni che, con esso, mi erano state concesse.
Time is not your enemy, forever is
L’avventura del Senza Nome è una delle più profonde che abbia mai incontrato. Le sue vicende si affacciano, letteralmente, su piani metafisici che concedono un enorme spazio di riflessione. Tutta la sua avventura sembra costruita su concetti astratti, magistralmente concretizzati dagli sviluppatori e dai creatori del gioco. Ogni personaggio sembra racchiudere un pensiero reale, una credenza, una verità che, a tratti, si fa indistinta e paradossalmente metafisica. Un’avventura che comincia con il nostro protagonista, The Nameless One, pronto a cercare una soluzione a due problemi fondamentali della sua esistenza: il proprio passato, e la sua immortalità. Un viaggio poetico, quello del Senza Nome, un viaggio alla ricerca del proprio ruolo, del proprio dolore, dei propri fantasmi.Un viaggio nei meandri dell’universo, i cui regni non sono altro che il frutto di una credenza condivisa. Ogni fazione che si incontra nel gioco, infatti, possiede una particolare concezione del mondo e della vita; ogni fazione crede di possedere l’unica Verità possibile. Così, l’intero universo non è nient’altro che un’immenso teatro di lotta, di guerra tra le diverse ideologie; niente di più reale e, nel contempo, di più profondo, interiore, metaforico. Perché la lotta tra diverse ideologie non avviene solo nel mondo esterno, anzi, forse il conflitto più duro, più devastante, più violento, è proprio quello che viene combattuto, ogni giorno, nell’interiorità della coscienza.
La città di Sigil diviene, così, il palcoscenico di una lotta senza fine, senza vincitori, né vinti. Ed è in esso che il Senza Nome si trova a combattere la sua battaglia, una battaglia per ritrovare la sua mortalità, la quale, come esige il palcoscenico, ha anch’essa una sua corporeità e, ovviamente, un suo nome: Il Trascendente. Una nemesi, questa, che lascia un monito, una riflessione sul vero contenuto della vita, sulla responsabilità che, ogni giorno, pende sulle nostre azioni. Ed è per questo che il nostro eroe per ritrovare se stesso deve combattere la sua mortalità, e fuggire, alla fine, dalla spirale della continua rinascita, dalla maledizione e dal tormento della sua immortalità.
Penso, quindi sono
Planescape: Torment è un gioco che conduce il videogiocatore a riflessioni profonde, esigendole e portandole alla luce con un linguaggio tecnico, filosofico, letterario. L’avventura del Senza Nome è costellata di riflessioni filosofiche sul ruolo dell’etica e della natura umana. Planescape: Torment è un monito a che crede che l’essere umano non possa scegliere, o cambiare, la propria esistenza e il proprio destino. E lo fa viaggiando tra i mondi, tra le credenze, tra leggi e punizioni, tra forza e perfezione. Così, i Piani cambiano, mutano in base alle ideologie, alle verità credute dagli uomini, che di quel Piano, ne fanno la storia, il sostrato vivente della coscienza di un mondo:
“Se ho imparato qualcosa nei miei viaggi sui Piani, è che molte cose possono cambiare la natura di un uomo. Il rimpianto, l’amore, la vendetta o la paura – qualsiasi cosa in cui credi possa cambiare la natura di un uomo, può farlo…
Ho visto città spostarsi, uomini salvarsi dalla morte, e il cuore di una strega malvagia sciogliersi, per il Credere. Quest’intera Fortezza è costruita sul Credere. Il Credere ha dannato una donna, il cui cuore un tempo si è aggrappato alla speranza che un altro la amasse, mentre non era vero. Una volta, il Credere ha spinto un uomo a cercare l’immortalità, e ad ottenerla. E ha fatto sì che uno spirito arrogante pensi di essere qualcosa di più che una parte di me.“
La Credenza, in questo stupendo gioco di ruolo, è lo spettro che aleggia, indiscriminatamente, sui destini degli uomini, e dei mondi. Quegli stessi uomini che non sono altro che maschere nude della propria ideologia. Ma la loro vera debolezza non viene affatto da questa loro natura, bensì dal fatto che una Credenza è affermata e vissuta come Verità. L’uomo che non accetta la credenza per ciò che è, è un uomo che non conosce se stesso, un uomo dominato e in perenne conflitto con se stesso. Questo è l’insegnamento che il nostro protagonista riceve, inesorabilmente dalla sua ricerca e dalla sua avventura; perché, come ricorda Dak’kon, conoscere se stessi non significa conoscere il proprio scopo, bensì saper riconoscere, in noi, il frutto delle proprie azioni, dei propri desideri, dei propri errori.
“Una cosa non necessita di ordine o di avere uno scopo per conoscere se stessa.“
Tanti Piani, un solo Cielo
L’ultima riflessione del Senza Nome è sulla necessità in generale, sulla vita come unico arco narrativo ed eternamente soggetto alle leggi del tempo e dell’universo. Una riflessione che diviene ancora più evidente se si pensa alla città di Sigil, dominata da un’entità misteriosa, la Signora del Dolore, che vieta perentoriamente il culto di qualsivoglia divinità. Ed è proprio Sigil il teatro della lotta interiore del nostro protagonista, che, ad ogni angolo, trova, inesorabilmente, se stesso; illuminato da una luce diversa, ma sempre dinanzi allo stesso pubblico, sempre sullo stesso palcoscenico, fatto di ombre e luci, di realtà e credenza, di uomini e spiriti. Il viaggio del Senza Nome, pertanto, è un viaggio verso la conoscenza di se stesso, un viaggio introspettivo nei meandri dei suoi ricordi e delle sue azioni, delle quali, un giorno, sarà chiamato a pagare il giusto prezzo. Planescape: Torment è un gioco complesso, per certi versi disarmante, nella sua componente lessicale e, soprattutto, metaforica; eppure, dall’avventura del Senza Nome si ricava un messaggio importante, deciso, forte, a tratti terribile: per quanto la conoscenza di se stessi ci possa portare lontano da ciò che crediamo di conoscere, non dobbiamo mai dimenticare che, in fin dei conti, “non possono esserci due cieli“.

La storia che mi lega a questo gioco è forte, e, per alcuni, sarò anche troppo sentimentale. Eppure io sono così, gioco con passione, con sentimento, sempre pronto a vivere, con interezza ma con rispetto, le storie, e le riflessioni, che i videogiochi riescono, irrimediabilmente, a trasmettere. Ed è per questo che oggi voglio chiudere il mio articolo con la frase di un mio collega, Lorenzo Plini, il quale, qualche mese fa, ha scritto, sulle pagine di Spaziogames, uno speciale bellissimo su Planescape: Torment. Spero di non arrecargli torto citando, come frase conclusiva, le sue splendide parole:

“…è il caso di dire che la natura essenziale di un videogioco non cambia nel tempo: i capolavori restano tali, anche a distanza di quattordici anni.” (L. Plini)

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