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Un videogioco con ghiaccio, grazie - Kingdoms of Amalur: Reckoning

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Avatar di Adriano Di Medio

a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Pubblicato il 01/09/2017 alle 00:00

Bentornati a Un Videogioco con Ghiaccio, la rubrica alla scoperta (e riscoperta) dei migliori videogiochi contro cui combattere l’afa. Per quanto il caldo persista, in realtà l’estate si avvia verso un’inevitabile conclusione. Oggi è infatti il primo giorno di settembre, il più semplice dei simboli per indicare come manchi poco alla ripresa di lavoro e studi. Così, dopo aver passato l’estate in compagnia di vichinghi battaglieri, vichinghi giapponesi, principi di Persia e Homer Simpson, è arrivato il momento di chiudere con un videogioco che possa intrattenerci per questi ultimi scampoli di ferie. E quale migliore possibilità se non quella di un grande gioco di ruolo open world, magari passato in sordina? Ecco quindi Kingdoms of Amalur: Reckoning.
Il regno dei nomi altisonanti
Siamo nei primi mesi del 2012. Il mondo del videogioco è stato appena travolto da The Elder Scrolls V Skyrim, un successo clamoroso che ha rilanciato il fantasy epico nell’immaginario popolare. Tutti vedono il titolo Bethesda come la legge dei giochi di ruolo occidentali, ma ignorano che c’è qualcun altro che lavora al fantasy: 38 Games, lo studio fondato dall’ex giocatore di baseball Curt Schilling. Assicuratasi l’appoggio di EA, lo studio è un raro esempio di quelli che nella musica si chiamano supergruppi e nello sport dream team. 38 Games è infatti composta da personalità di spicco nell’ambito del fantasy videoludico e non. Bastano tre nomi: Mark Nelson (designer di The Elder Scrolls IV: Oblivion), Todd MacFarlane (creatore di Spawn e di Venom, uno dei maggiori antagonisti dell’Uomo Ragno) e R. A. Salvatore (artefice dei Forgotten Realms e di Drizzt Do’Urden, l’elfo scuro più famoso del mondo). Messi al lavoro da Schilling su un MMORPG, l’auge del single player fa cambiare rapidamente obiettivo, risultando in quello che doveva essere il primo capitolo di una nuova saga fantasy. Il risultato è stato un inaspettato punto di incontro tra molti stili e idee diversi, ma che inevitabilmente fatica a trovare una propria identità.
Ma andiamo con ordine. La storia è ambientata a Faeland, facente parte del continente di Amalur. In questo luogo è attualmente in corso una guerra tra i Fae e i Tuatha Deohn. Una guerra fratricida: i Deohn altro non sono che Fae corrotti. Ma la sete di conquista di Gadflow signore dei Deohn non sta a guardare simili sottigliezze, specialmente in una fase così a suo favore. La cosa viene sconvolta proprio dal nostro personaggio: questi è uno dei tanti soldati caduti sul campo di questa inutile guerra, che viene recuperato e usato come cavia per il Pozzo delle Anime. Gli effetti di questa invenzione gnomica sono inaspettati: il personaggio si risveglia sfuggendo ad una morte predestinata.
Senza destino, ma con stile
La premessa è molto meno banale di quanto non sembri leggendola. In un mondo come quello di Amalur, dove con i giusti mezzi è possibile prevedere il destino di chiunque, un singolo essere che sia riuscito a svincolarvisi può avere conseguenze mostruose. Un personaggio che diventa artefice e non prescelto, sostanzialmente libero e potenzialmente capace di sconvolgere il tessuto stesso dell’esistenza. Il nostro singolo uomo (o donna) diviene quindi un blocco di creta da plasmare come vogliamo: tralasciando l’editor per l’aspetto fisico abbastanza basico, possiamo fargli fare qualunque percorso e fargli intraprendere qualunque missione.
La storia principale ruota comunque attorno al fermare Gadflow, ma come al solito niente ci impedisce di semplicemente esplorare il mondo e perderci in ogni piccolo dettaglio. Ogni abitante di Faeland è infatti crucciato da qualcosa, e conseguentemente disposto a dare in cambio ciò che a noi serve di più: denaro e punti esperienza. E sarà sempre a questi ultimi che si punterà maggiormente: con la gestione delle classi praticamente assenti, saranno le nostre azioni a decidere in quali rami il personaggio si svilupperà. Il concetto è stato reso metaforicamente tramite una serie di carte simili ai tarocchi: ogni volta ne dovremo scegliere una e successivamente assegnare i punti abilità alle abilità e agli attacchi speciali. In effetti, è chiaro come 38 e Big Huge Games (autori del motore grafico) abbiano fatto di tutto per differenziare il combattimento da quello degli altri esponenti del genere. Dove di solito si preferisce uno scambio di colpi immediato e se vogliamo più grezzo e “carnale”, Amalur imbocca la strada opposta dello “stylish” (come insegnato ai tempi da Devil May Cry e da God of War). Le possibilità sono quindi moltissime: la varietà di equipaggiamenti è notevole, e i moveset ben differenziati. Compaiono schivata e parata, ed è anche possibile attivare una speciale modalità “Ira” dove ogni nemico si immobilizza ed è possibile esibirsi in una spettacolare mossa finale. L’obiettivo riesce però solo a metà: la resa su schermo delle mosse è spettacolare, ma si ha sempre la sensazione di non essere in pieno controllo della situazione.
Non chiamatela nemesi… ma occhio al motore
Di contro, il mondo di gioco dimostra una certa personalità. In sé la grafica si avvicina insistentemente al cartoonesco e al fumettistico. L’allusione è ovviamente al World of Warcraft di fine anni Duemila, e volendo era anche la soluzione migliore per portare su schermo il tratto caratteristico di Todd MacFarlane. Lontano dalla pennellata di inchiostro, si punta verso una fitto tratteggio di colori accesissimi e sulla caratterizzazione delle razze che popolano Faeland. C’è da dire che queste ultime si dimostrano particolarmente puntuali, rispecchiando con coerenza quanto ci si aspetterebbe da un fantasy classico: abbiamo i già citati Fae e Tuatha Deohn (spiriti elementali immortali), Alman e Varani (le due etnie della razza umana), Ljosafar e Dokkalfar (cioè elfi e elfi oscuri rispettivamente) e gli Gnomi per i Nani. I loro stessi ruoli nella vicenda si mantengono conformi a quanto ci si aspetta, e anche qui la sensazione restituita è piacevole.
Il mondo di gioco fa poi di tutto per esibire architetture ardite e grandi orizzonti. L’esplorazione rimane comunque decisamente più statica: le locazioni selvatiche ruotano attorno a sentieri prestabiliti, che si allargano fino al sandbox in villaggi e cittadine. In tal senso il gioco quasi si tradisce: basta osservare il radar nell’interfaccia per vedere chiaramente come l’ambientazione sia aperta ma solo fino a un certo punto. La tecnica del gioco, poi, purtroppo non è delle migliori. Il Big Huge Engine, motore creato appositamente, disegna con puntualità l’ambientazione, ma si dimostra allo stesso modo poco ottimizzato. Al di là di qualche muro invisibile, è evidente la sua goffaggine nel gestire i molteplici strati di cui è fatto il gioco di ruolo. Il passaggio tra personaggio, ambienti esterni, edifici e menu è purtroppo rigido. Le ambientazioni sono inframmezzate da frequenti caricamenti, e non è raro assistere anche a piccoli blocchi di mezzo secondo quando si passa da una macro-pagina di menu all’altra. È evidente come sia il tempo tecnico che serve al programma per prendere i dati da disco, ma questo rende la navigazione inutilmente prolissa.
Grande, grosso, e non lo nasconde
Pertanto, in che condizione Kingdoms of Amalur è arrivato al 2017? Non in formissima, e purtroppo si vede. Intendiamoci, come videogioco non è assolutamente da buttare, anche considerando la sua natura di “opera prima”. Non che il background narrativo del gioco non sia veramente vasto e ben costruito. La mano di R. A. Salvatore si fa sentire nei rimandi cronologici precisi e alla marea di piccoli dettagli, tutte “porte aperte” per un universo narrativo che non sarebbe mai entrato in un videogioco solo. Ed è anche questa cura di fondo che rende Faeland ancor più pensata e bella da vedere. Perché Kingdoms of Amalur: Reckoning è grande, veramente grande. Tante quest, tanti luoghi, dialoghi infiniti, cieli azzurrissimi. Ci si aggira piacevolmente per le lande, alla ricerca di un’emozione visiva sempre nuova.
Ma a parte la tecnica, ciò che più lo fa apparire “fuori tempo” è l’avvenuto cambio di percezione che c’è stato del genere fantasy. Amalur è infatti arrivato proprio all’inizio di quella che possiamo definire come l’onda lunga del dark: dal Trono di Spade ai Souls, il pubblico si è abituato ad una concezione più oscura e sporca di questo genere. Una rappresentazione luccicante e fumettosa come quella offerta dal nostro Amalur al confronto finisce col risultare (parafrasando lo stesso George R. R. Martin) troppo “Disneyland”.
E volendo, gli sviluppi successivi lo confermarono: la concorrenza con Skyrim fu terribile e il gioco vendette 1,2 milioni di copie. I ricavi non bastarono neppure al pareggio dei costi e 38 Studios fallì nel maggio 2012, facendo sfumare qualunque sequel e ambizioni successive. Gli stessi diritti sull’IP finirono (indirettamente) in mano allo stato del Rhode Island, perché 38 non era riuscita a sostenere gli oneri fiscali. Un aneddoto che mette tristezza, perché Amalur si meritava ben più di questo.

Alla fine dei conti, come valutare Kingdoms of Amalur: Reckoning? Nel modo più giusto: non come copiatura o nemesi, ma come il sincero tentativo di creare qualcosa di nuovo, con ispirazioni riconoscibili ma che si reggesse ugualmente sulle proprie gambe. Come un punto di partenza, che sicuramente in un sequel si sarebbe scrollato di dosso il fastidioso senso di pastiche di cui sono preda tutti i nuovi universi fantasy. E specialmente in questi anni in cui il dark fantasy regna sovrano, non si può non ricordare quel momento in cui la finzione videoludica era dominata da grandi eroi che non si chiamavano tutti Link. Andate a prepararvi un secondo bicchiere con ghiaccio: non vi ci perderete particolarmente, ma è un videogioco perfetto per concludere le ultime settimane di estate.

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