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Videogiochi su Tela - Journey

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Avatar di Roberta Pagnotta

a cura di Roberta Pagnotta

Pubblicato il 02/03/2018 alle 00:00

Era il 2012 quando Journey, il capolavoro onirico di Jenova Chen, approdò sul mercato, presentandosi a tutti gli effetti come un gioco autentico e atipico, un tributo alla diversità artistica del videogioco.
L’esperienza emozionale targata Thatgamecompany si professava di portare avanti in maniera più ambiziosa e completa l’esperimento già avviato con i poemi interattivi Flow e Flower, due titoli che lasciavano da parte tutte le esigenze e le logiche “commerciali” proprie del videogame per assumere un senso meno preciso in termini ludici, ma molto più edificante ed introspettivo dal punto di vista del percorso emotivo. 
Dietro la filosofia di Journey, però, oltre alla catarsi e alla riscoperta del valore della condivisione, c’era il desiderio di far sentire al giocatore quel senso di accorata meraviglia e assorta introspezione che può provare soltanto il viaggiatore, l’astronauta e chiunque senta il bisogno di esplorare un universo sconosciuto non solo per il piacere di farlo, ma spinto dal bisogno di ritrovare se stesso. 
L’elemento caratterizzante del viaggio è la stimolazione dei sensi, che viene resa possibile grazie alla speciale interazione che si instaura tra il protagonista e lo scenario in cui è immerso. Ma a svolgere un ruolo chiave nel racconto sono soprattutto le scelte cromatiche, che rendono grandiose le atmosfere e accompagnano il quieto sentire.
Questa nuova puntata di Videogiochi su Tela sarà tutta incentrata proprio sulla funzione del colore. Vi trasporteremo all’interno delle atmosfere calde ed avvolgenti di un’esperienza sensoriale unica ed indimenticabile, cercando di analizzare la poetica e i modelli estetici della pittura coloristica di William Turner, colui che con il colore riuscì persino a dare una forma alle emozioni.
Il paesaggio interiore e la teoria di Goethe
Fin dall’antichità l’uomo è stato da sempre affascinato dalle proprietà empiriche del colore. A partire da Pitagora fino ad arrivare a Kandinskij, molti dei più grandi artisti e pensatori hanno cercato di studiarne le caratteristiche per riuscire a comprendere in modo concreto il meccanismo delle sue manifestazioni e i suoi effetti. 
Relegare, però, il fenomeno della visione ad una mera azione chimico-meccanicistica, di certo non bastava. C’era il bisogno di compiere una ricerca che andasse oltre il puro dato fenomenico e che inquadrasse la stretta relazione che esiste tra il colore e la sua percezione, tra il fenomeno e la sfera del sensibile.
Wolfang Goethe fu il primo a cercare di colmare quest’esigenza. Nel suo celebre saggio La teoria dei Colori (1810), rivendicò la centralità dei sensi dell’uomo nella conoscenza dei fenomeni naturali, ponendosi in netta antitesi con la visione atomistica di Isaac Newton. 
“Il Giallo-Rosso (Arancione) fa parte dei colori Più, insieme con il giallo, e il rosso-giallo (Cinabro). Essi danno luogo a stati d’animo attivi, vivaci, tendenti all’azione. Il Giallo-Rosso, crescendo in energia, appare vivo e splendido, dà all’occhio una sensazione di calore e di diletto. Rappresentato sia dal calore della brace ardente, che rappresentando il riflesso, in misura moderata, del sorgere del sole o del suo tramonto, risulta gradevole negli ambienti, piacevole e magnifico nel vestiario.”
Se per Newton quindi la luce altro non era che un mero movimento di particelle, quantitativamente misurabile, per Goethe, di contro, era essenziale prendere in considerazione il ruolo svolto dalla nostra percezione. All’interno del suo saggio la visione veniva descritta come un elaborazione del nostro occhio e, quindi, della mente umana, e come tale doveva innestarsi nell’armonia e nella completezza del rapporto uomo-Natura. 
 
Tale ricerca figurativa, però, non aveva ovviamente un carattere di scientificità nel senso attuale del termine, tuttavia per la sua caratterizzazione legata alla sfera del sensibile, suscitò l’interesse di molti artisti, influenzando in particolar modo la poetica del paesaggista inglese William Turner.
Figura solitaria ed instancabile viaggiatore, Turner rielaborò la teoria della luce e delle ombre di Goethe, raffigurando la loro relazione in molte sue tele.
L’artista cercò di rispondere ai concetti “del più” e “del meno” enunciati nella Teoria dei Colori per creare un collegamento tra l’occhio e le emozioni. Pose grande attenzione alla post-immagine che resta impressa sulla retina dopo la visione dell’immagine stessa. Attraverso questa, il colore giallo e il rosso (il più) avrebbero dovuto evocare nell’osservatore ottimismo e sentimenti positivi, mentre il colore blu (il meno) sentimenti di malinconia, tristezza e desolazione.
Il suo interesse primario era riuscire ad indagare la radicalità sublime del colore per creare un forte impatto emotivo: l’osservatore di fronte ai suoi quadri doveva assumere un ruolo attivo, percepire i turbinii di luce, i mari in tempesta e le nubi spumeggianti come sensazioni ed emozioni in movimento, non come luoghi riconoscibili. 
Il colore come fonte inesauribile di stimoli, quindi, ma anche e soprattutto come un elemento capace di descrivere e raccontare. Ed in Journey, proprio come accade nei dipinti di Turner, i giochi di luce, lo splendore dei cieli, le atmosfere trasognate rappresentano qualcosa che va oltre il semplice concetto di bellezza visiva, per divenire messaggio e simbolo.
Matt Nava, l’art director del titolo, concepì il Viaggio dell’Eroe basandosi proprio su questi principi, riuscendo a far del colore un valido strumento di comunicazione visiva, ma soprattutto sensoriale.
L’elemento cromatico doveva servire per suscitare tutta una gamma di emozioni, per delineare in fase di gioco il percorso di cambiamento e di crescita del giocatore ed aiutarlo a sentirsi emotivamente pronto ad entrare realmente in connessione con l’altro.
“In quanto essere umani siamo spesso soli ed il bisogno di essere accettati dagli altri è forte. Quando le persone sperimentano un senso di solitudine condivisa la loro reazione immediata è uscire dal proprio guscio e cercare un contatto. Il motivo per cui volevamo creare Journey era creare una connessione reale tra due persone. L’ho fatto perché tutti dicono che ora va di moda il social gaming, ma niente è socializzante come lo scambio di emozioni tra due esseri umani “
Jenova Chen 
Il ritmo cromatico che si diversifica nel corso dell’avventura modifica la percezione dello spazio e del tempo, ma influisce sensibilmente sullo status emotivo del giocatore. Nel primo atto i colori vivi e chiarissimi della sabbia avvolgono il protagonista. Diventa tutto inebriante, armonico e vibrante. Ha inizio la ricerca. Ma quando egli si perde nel sottosuolo, le atmosfere si colorano di un blu intenso e spaventoso, contribuendo a farlo sentire oppresso e spaesato e verso la fine di ogni cosa privo di energia, svuotato, solo, in cima ad una montagna dai toni grigi e spenti. 
La potenza del colore arriva persino a disintegrare le forme e i volumi. Se ripensiamo ai dipinti di Turner, anche gli elementi dei suoi paesaggi erano soltanto delicatamente abbozzati, sfumati nel bagliore intenso della luce. Le dimensioni e le distanze si dilatano, l’ambiente si appiattisce sullo sfondo, diviene a tratti immateriale ed evanescente, favorendo l’esplorazione e la scoperta di questo enorme senso di apertura, leggerezza e libertà.  
In Journey sono le atmosfere il cuore pulsante dell’azione. I colori non sono più un semplice riflesso che caratterizza il mondo di gioco, ma fluiscono per divenire entità autonome, in grado con la loro palpitante intensità di narrare una storia, di dipingere la forza della Natura e la spiritualità incarnata della Luce. 

Quella rappresentata in Journey è un’arte in parte simbolista, per la ricerca di quel sentimento presente nella Natura ma che il solo occhio non può percepire, ma anche pienamente romantica perché volta al puro sentire. L’opera di Jenova Chen oscilla tra l’onirico ed il drammatico, tra il sublime e l’astrazione delle individualità, e assume la forma di una delicata parabola a colori di immenso valore e dal fascino senza tempo.

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