Retroludica - Il Game Gear

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a cura di Doctor.Oz

Retronostalgici e neofiti di primo pad, ben ritrovati con Retroludica, la nuova rubrica di Spaziogames dal bollino PEGI 18 e curata dal vostro amato Doctor.Oz. 
Se con la prima puntata in cui vi ho parlato del Game Boy alcuni di voi sono stati preda dei vecchi ricordi, andando a rispolverare vecchi cimeli impolverati e/o ad effettuare incauti acquisti in giro per la rete, questa volta sappiate che sarà peggio. Siete sempre in tempo per smettere di leggere, salvaguardando quel vostro personalissimo vaso di Pandora che anche questa volta verrà scoperchiato brutalmente a colpi di nostalgia canaglia.
Visto che precedentemente abbiamo parlato del Game Boy, oggi parleremo del suo diretto antagonista, o per meglio dire quello che per una decina d’anni è stato ritenuto il suo diretto contendente. Lui, che con le sue forme suadenti e i suoi schermi colorati, ha messo in crisi molti di noi quando arrivò il momento di stillare la lista dei regali di Natale (all’epoca vigeva una virile regola non scritta: un regalo, uno solamente).
Parlo ovviamente del Game Gear, gioiello tecnologico di casa SEGA, che nel suo piccolo attuò una vera e propria rivoluzione del genere con i suoi colori brillanti e il suo schermo retroilluminato. Rivoluzione che fu solo a metà, ad essere onesti, ma che lasciò un solco profondo e indelebile nella memoria di molti.
Pronti, allora? Rilassatevi adesso, vi sto per raccontare una storia. E non dimenticate di preparare i fazzoletti. Tanti, tantissimi fazzoletti.

E’ il 1990, lì fuori. Mentre Michael Jordan perde gara-7 contro Detroit, fuori, nelle strade, milioni di ragazzini gonfiano le proprie Reebok con l’apposita pompetta color arancia. Altrove e precisamente nell’afosa estate del 21 luglio, i Pink Floyd si esibiscono nella loro opera rock più famosa: The Wall. E lo fanno con alle spalle le macerie un famoso muro da poco abbattuto: quello di Berlino. L’8 agosto, invece, papà Bush fa lo scherzone del secolo alle sue truppe. Promette la scampagnata al mare con tanto di pranzo al sacco e partitella in spiaggia col Super Santos e invece dà l’ok per l’operazione Desert Storm
Ed è circa due mesi più tardi che la nostra storia prende la piega nostalgica strappalacrime. Un giovane Makoto Ohara e il suo segretissimo Project Mercury oramai divenuto realtà (talmente segreto che SEGA dovette cambiare la sede di sviluppo in corso d’opera a causa di alcuni furti dovuti a spionaggio industriale) sono pronti ad uscire allo scoperto. 
Il 6 ottobre esce sul mercato giapponese il Game Gear, una console che di certo non cambiò la storia delle console portali ma che cambiò, in larga parte, la percezione che i videogiocatori avevano di esse. Con il Game Gear nacque la consapevolezza che quel futuro fatto di colori e suoni straordinari esisteva veramente, ed era a portata di tasca. Una tasca molto grande, però. Che nei pantaloni attillati raso cavallo di oggi mica ci sarebbe mai entrata, eh.
Sotto il segno della fretta e dell’inquinamento da nikel-cadmio
Era il settembre del 1989 quando SEGA decise di giocarsi il tutto per tutto in una mano fortunosa. In un vertice aziendale soporifero, durato forse tra i sette e gli otto minuti, dopo aver discusso per giorni intere le sorti di marketing del famoso SEGA Mega Drive, precisamente. 
-“Sbrighiamoci che alle 4 ho il golf” dice uno, “Beato te che hai il golf, io alle 5 devo vedere il giudice per il divorzio con quella strega di mia moglie” risponde un altro. 
-“E se rivoluzionassimo il mobile gaming portando il colore nelle mani di milioni di videogiocatori? Un dispositivo talmente potente da eguagliare il SEGA Master System. Pensateci bene, gli sviluppatori lavorerebbero su un’architettura che già conoscono e potremmo far uscire moltissimi giochi perché richiederebbero la metà del tempo di sviluppo. Supereremmo Nintendo creando un mercato che non esiste, conquisteremo gli USA e l’Europa a suon di Sonic e Shinobi!” propone un sedicente e rivoluzionario Makoto Ohara, rosso in viso, con in mente già il prototipo della nuova periferica dal nome alquanto imbarazzante: Project Mercury (in quegli anni SEGA amava chiamare le proprie console con il nome di pianeti). Tutto intorno a lui tace per un attimo. Si sente solo il ticchettio degli orologi da polso. 
-“Non dimenticate che guadagneremo un sacco di soldi!” esclama battendo il pugno sul tavolo. 
-“Per noi è andata, va bene. Aggiudicato”- scrosci di applausi per Ohara -“Ragazzi, dove facciamo l’aperitivo stasera?”, il consiglio direttivo approva senza neanche ascoltare Ohara che nel frattempo prova a spiegare i rischi di una produzione frettolosa. Ha bisogno di tempo, di molto tempo. 
-“Allora usciamo sul mercato fra tredici mesi esatti. Andata? Ok, andata”, il consiglio si riveste frettolosamente ed infine si appresta a conquistare il jetset di Tokyo, rigogliosa terra di apericene. Ohara decide che non bisogna perdere tempo e informa il reparto di ricerca e sviluppo applicata circa la sua intuizione. A breve guadagnerà prestigio aziendale, notorietà e una serie interminabile di nottate in bianco sui codici di programmazione della nuova console.
L’idea concreta, ma allo stesso tempo folle, di poter rivaleggiare ad armi pari con Nintendo sul mobile gaming, nonostante la Grande N avesse già piazzato un milione di copie del suo Game Boy e ad inizio 1990 fosse l’azienda giapponese dai profitti più elevati, convinse l’azienda del porcospino blu a rischiare il tutto per tutto. Seppur non ci fossero i migliori presupposti  per procedere e la finestra di mercato scelta fosse alquanto incerta, SEGA volle gettarsi nel mercato delle portatili con l’idea di un dispositivo tecnicamente più dotato. La scelta fu affrettata, è vero, e se pensate che lo sviluppo fu migliore beh, vi sbagliate di grosso. 
In appena un anno solare, SEGA concepì, realizzò, e brevettò la sua nuova periferica portatile. Riuscirono persino a convincere un offesissimo Ohara a cambiare nome al device, dopo che tutti i dipendenti SEGA dell’epoca gli fecero notare che Mercury come nome andava bene sì, ma che era stato già preso da un tizio baffuto di nome Freddie, che faceva rock e che spesso finiva i concerti vestito solamente in mutande .
A poco più di un anno da quel vertice aziendale famoso, SEGA, nonostante i costi di produzioni altissimi, portò sugli scaffali un prodotto di tutto rispetto: il 6 ottobre debuttò ufficialmente nei negozi il SEGA Game Gear.
Con una CPU Zilog 8-bit, una RAM video di 16kb (il doppio di quella del Game Boy), un brillantissimo schermo retro-illuminato LCD a matrice passiva, non regolabile, con cui milioni di bambini resero potentissima la lobby degli oculisti, un comparto audio che si fregiava di ben quattro canali tonali in uscita (contro l’unico mono del Game Boy) e un attacco specifico per alimentazione esterna da utilizzare sia a casa che in macchina, SEGA Game Gear era il non plus ultra del ritrovato della tecnica miniaturizzato dell’epoca. Come voluto dallo stesso Ohara, infatti, il Game Gear montava lo stesso hardware della sorella maggiore, il SEGA Master System.
Nonostante il lancio fulmineo e spettacolare, la campagna pubblicitaria massiccia e pressante e l’hardware di tutto rispetto che portava con sé la rivoluzione a colori promessa, la reazione del grande pubblico nipponico, però, restò abbastanza tiepida.

Ohara e giocatori, gioie e dolori
Cercando di analizzare i dati di mercato e il decorso storico, l’insuccesso di SEGA fu attribuibile a tre fattori principali, due già messi sul taccuino degli IMPREVISTI durante il percorso di ideazione e di produzione, e uno collaterale per il quale milioni di giocatori pagarono – in senso letterale – lo scotto .
Innanzitutto il prezzo. La folle corsa all’oro di SEGA permise sì, di portare sugli scaffali giapponesi una console nuova di zecca in poco più di un anno, ma ne alzò il costo al pubblico di circa il 50% rispetto a quello previsto.
Lo scenario all’uscita fu di quelli che non si augurano nemmeno ai diretti competitor: nonostante la sua visibile superiorità tecnica, il Game Gear si trovò subito ad essere accostato al Game Boy, presente nei negozi già da un anno e già familiare ai milioni di videogamers, perdendo immediatamente terreno a causa del suo prezzo maggiorato. 
Nel mondo le cose non andarono di certo meglio. Arrivato l’anno successivo in Europa (era il 1991), a causa dei costi di trasporto e di dazi doganali il Game Gear aumentò ulteriormente il proprio prezzo, arrivando a costare quasi il doppio di un Game Boy (e pensare che l’era geologica dell’AppleZoico con il suo diabolico cambio equiparato euro-dollaro non era ancora iniziata). Insomma, il Game Gear, pensato come dispositivo a largo consumo, passò ad essere un dispositivo di nicchia ancor prima di vendere il primo pezzo.
L’altra grave mancanza che non permise al Game Gear di imporsi sul mercato fu l’assenza di una lineup di titoli veramente accattivante. E questo fu dovuto alle molte software house che, nonostante i pre-contratti stipulati con SEGA in fase di sviluppo della console, si ritirarono una volta visto l’andamento delle vendite nel primo anno, lasciando la casa a sviluppare  da sola i propri titoli. A parte Sonic e Shinobi presenti all’uscita, il catalogo del Game Gear restò essenzialmente povero di contenuti.
Mentre Nintendo poteva fregiarsi di un parco giochi già di centinaia di titoli, il Game Gear non poté fare altrettanto e si presentò ai blocchi di partenza con una lista di quindici titoli nei primi mesi dal lancio. A nulla servì l’introduzione sul mercato della periferica SEGA Master Converter che permetteva di giocare i titoli del Master System su Game Gear. Ciò non aiutò le vendite anzi, le infossò alimentando un incubo tutto moderno, in cui tergiversa tutt’ora la nostra generazione di gamers: il porting brutale di titoli da una piattaforma all’altra.
Last but not least, l’effetto collaterale che mandò a picco le vendite di SEGA fu quello dovuto ai rischi di progettazione rapida. Se vi dico che il Game Gear contribuì ad aumentare del 70% l’inquinamento da nikel-cadmio del pianeta, credetemi.
Lo schermo brillantissimo e potentissimo, difatti, aveva bisogno di una quantità immensa di energia per poter funzionare. Tutto ciò si traduceva, in soldoni, a sei – dico SEI- pile stilo che garantivano circa tra le quattro e le cinque ore di gioco totali. 
Se vi state guardando con circospezione i quattro, cinque caricabatterie intrecciati senza senso alcuno sulla vostra scrivania che un po’ riflettono il vostro caos interiore, pensate che nel 1991 le batterie al litio ancora non esistevano (vennero introdotte sul mercato da Sony solamente ad inizio 1992) e che il Game Boy con solo quattro pile alcaline aveva un’autonomia di circa trentasei ore di gioco.
Chiunque ora si lamenti della durata della batteria del 3DS è pregato di andare in punizione dietro la lavagna e di restarci fino alla prossima puntata di Retroludica.
Per dovere di cronaca, vi dico che a nulla servì, un paio di anni dopo, l’introduzione sul mercato di ben due Battery Pack appositi, uno ricaricabile tramite presa elettrica e l’altro che aggiungeva altre sei pile alle sei già presenti. Generalmente difficili da reperire, nei migliori dei casi costavano quanto metà della console di casa SEGA.
Nonostante il diabolico atto di sabotaggio perpetrato da SEGA, il coniglietto della Duracell poteva continuare a dormire sonni tranquilli. Un po’ meno, invece, il protocollo ecologico del trattato di Kyoto e tutti quei genitori che a Natale avevano ceduto alle lusinghe dei diabolici giocattolai.

Game Gear Superstar
Nonostante tutti i problemi che avrebbero fatto suicidare qualunque CEO al mondo, Game Gear riuscì comunque a ritagliarsi una buona fetta di mercato. E ora vi spiego pure il perché. Anche se accadde lentamente, milioni di appassionati cominciarono ad avvicinarsi al mondo portatile SEGA, attratti dalla qualità di alcuni titoli e dalla altissima raffinatezza costruttiva della macchina. Seppur pesante il giusto per farsi venire due bei bicipiti, il Game Gear offriva una ergonomia migliorata grazie soprattutto alle sue forme generose e al suo d-Pad che andava a sostituire la croce direzionale. Che la macchina fosse potente, inoltre, fu chiaro anche alle piante quando uscì su di esso il porting di uno dei videogiochi più gettonati (nel senso che in sala giochi ci si spendeva sopra una fortuna in gettoni) dell’epoca: Mortal Kombat
Peccato che la lineup di titoli non venne supportata a dovere dalle aziende terze e la quantità di titoli stentò a decollare. Non bastarono Sonic, Shinobi, Mortal Kombat e Double Dragon a giustificare l’acquisto della console, visto e considerato che Nintendo aveva dalla sua già nel 1991 centinaia di titoli per il suo Game Boy. 
Obbligata a correre ai ripari, SEGA aprì involontariamente la strada ad un nuovo mercato. Quello delle periferiche portatili.
Chi non avrebbe desiderato la televisione sempre in tasca? Nonostante fossimo nei primi anni ’90, l’azienda di Ohara ebbe l’intuizione giusta che diede al Game Gear il lustro di cui aveva bisogno. Tra tutte le periferiche uscite negli anni, la più famosa fu certamente la TV Tuner, una speciale periferica che si poteva inserire al posto della cartuccia. Grazie ad un’antenna orribilmente lunga con cui milioni di ragazzini si cavarono gli occhi a vicenda ed un sintonizzatore a onde lunghe, era possibile vedere la televisione sul piccolo gioiello di casa SEGA in tutti i suoi 4096 sgargianti colori e senza l’obbligo di una banda larga. Nonostante Steve Jobs all’epoca non avesse ancora conquistato il mondo a suon di mele morsicate, l’era del feticismo tecnologico era incominciata in tutto il suo splendore. Ora fermate tremiti inconsulti e chiudete le pagine di eBay che avete appena aperto sul vostro browser: comprare un TV Tuner adesso non avrebbe senso considerando che tutti i segnali TV ora sono in digitale e dunque l’unica cosa che riuscireste a vedere sarebbe la schermata con cui Samara cerca di mettersi in contatto con voi.
Titoli di spessore e la promessa di una TV sempre in tasca fecero vendere a SEGA diversi milioni di esemplari al punto tale che il Game Gear, da semplice partecipante occhialuto al ballo di fine anno, divenne il reale contendente allo stradominio Nintendo.
Il Game Gear negli Stati Uniti (terra di televisioni via cavo) grazie al TV Tuner prese talmente piede e guadagnò tanto lustro che fu la console portatile con più cameo nella storia di Hollywood. Non ci credete? Bene, a parte le decine di apparizioni in film minori e la partecipazione a un video degli U2, sappiate che la comparsata più famosa il Game Gear la fece in Terremoto nel Bronx. In una scena memorabile (memorabile per i bambini che allora avevano sette anni, sia chiaro) Jackie Chan, noto videogiocatore e sostenitore SEGA, regala ad un bambino sulla sedia a rotelle proprio un Game Gear. Nonostante nelle scene successive si vedesse chiaramente che nel Game Gear non c’era nessuna cartuccia, si poteva ammirare comunque il bambino divertirsi un mondo a giocarci. Insomma SEGA, pur partendo da un progetto fallimentare, riuscì comunque a minacciare l’egemonia di Nintendo e per noi, eterni romantici videoludici deboli di cuore e di portafogli, il suo piccolo miracolo l’aveva fatto lo stesso.

L’avventura del SEGA Game Gear si conclude ufficialmente nel 1997, soppiantato dal SEGA Genesis Nomad, e dopo essersi lasciato alle spalle ben 11 milioni di console vendute e un parco giochi di 390 titoli. Nonostante l’inizio e la diffusione travagliata, Game Gear entrò comunque nell’olimpo delle console portatili più amate di sempre, riuscendo addirittura ad insidiare l’egemonia Nintendo. Se durante il suo ciclo vitale fu additato da molti come un insuccesso fu solo grazie al pressante marketing Nintendo e ai numeri stratosferici che essa riusciva a macinare sommando i diversi modelli di Game Boy fatti uscire nel tempo. Game Gear non fu per nulla un insuccesso, anzi, fu una piccola finestrella spalancata su quel futuro tecnologico a cui tutti oggi siamo abituati. Perché, di molti che leggeranno, non tutti ebbero l’occasione di esserci, in quei cortili assolati di luglio, quando in tre o quattro di noi si cercava di direzionare l’antenna nel migliore dei modi per riuscire a sintonizzarsi sul cartone animato delle cinque e mezza.