Recensione

Darkest Dungeon

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a cura di Gianluca Arena

Senior Editor

Negli ultimi anni di giochi in cui la morte è dietro l’angolo, pronta a ghermirci con le sue mani lunghe ed avvizzite, ne abbiamo giocati parecchi, soprattutto grazie a From Software, e la cosa, stranamente, ha entusiasmato la comunità videoludica anziché scoraggiarla.
In un mercato dominato da prodotti che si portano a termine da soli, sviluppati con la parola “accessibilità” in mente, Miyazaki-san ha fatto centro, e generato prodotti che, più o meno direttamente, si sono ispirati ai suoi Souls.
Darkest Dungeon è uno dei più disperati, bastardi ed assuefacenti tra essi: se la dose di morte, disperazione e stress da combattimento già elargite su PC qualche mese fa non vi fossero bastate, adesso potete avventurarvi in alcuni tra i dungeon più cupi degli ultimi anni anche su console Sony.
Le porte degli inferi
In linea con il lore del terzo episodio della saga creata da Hidetaka Miyazaki e con l’anno del Kraken di Hearthstone, Darkest Dungeon pesca a piene mani dal nefasto, marcio ed affascinante immaginario partorito dal genio malato di Howard Phillips Lovecraft, maestro della letteratura statunitense le cui opere stanno vivendo una seconda giovinezza, spinte anche, ci piace pensare, dal medium videoludico.
Non vi tragga in inganno questa premessa, però, perché, come in tutti i roguelike, l’aspetto narrativo della produzione Red Hook Studios è appena accennato, e, nonostante il malefico fascino delle ambientazioni e del mondo di gioco, si esaurirà nei dialoghi del vecchio beneficiario dell’enorme magione sotto la quale si cela un passaggio verso l’abisso.
Piuttosto che richiuderlo e scappare il più lontano possibile, l’anziano signorotto convoca avventurieri e mercenari da ogni dove, affidando loro l’esplorazione degli oscuri anfratti che si ramificano nelle fondamenta del maniero.
Composto un party iniziale di quattro personaggi, con un numero di classi e diversi archetipi che si renderanno disponibili proseguendo nell’avventura, il giocatore dovrà scendere nell’oscurità con i suoi eroi, che però, al contrario dell’iconografia videoludica classica, sono tutt’altro che senza macchia e paura.
Le oscenità con cui si troveranno ad incrociare le spade, la morte dei loro compagni d’armi, l’oscurità opprimente, il tanfo di marciume avranno su di loro effetti nefasti, che variano enormemente da guerriero a guerriero: alcuni impazziranno, non rispondendo più ai comandi del giocatore, altri terranno per loro il bottino strappato dalle fredde mani dei nemici, altri ancora, semplicemente, contrarranno chissà quale mordo putrescente dopo essere stati a contatto con le deformità che affollano i bui corridoi.
I meno forti, addirittura, potrebbero morire di crepacuore (letteralmente), ma parliamo di casi estremi, cui si giunge solo in caso di estrema incuria da parte del giocatore.
Un esercito di schizzati
In un riuscito tentativo di dare un colpo alla botte ed uno al cerchio, Darkest Dungeon fa schizzare in alto la barra che controlla lo stress dei membri del nostro party con grande velocità ma, d’altro canto, non fa mai mancare carne fresca con cui sostituire temporaneamente gli eroi più provati dalla brutalità della battaglia.
Questi ultimi hanno essenzialmente quattro modi per rinfrancarsi dopo una serie di sanguinose spedizioni, divisi tra la pagana locanda e la cattedrale del borgo confinante: taluni preferiranno la compagnia delle carte da gioco e dei dadi a quella di formose cortigiane, laddove talaltri tenteranno di annegare l’orrore nell’alcool e altri ancora cercheranno rifugio nella fede.
Ognuno di questi trattamenti ha un costo per il giocatore, e rende il soldato indisponibile per una settimana, costringendo ad organizzare una spedizione senza di lui: questo rende necessario allestire un roster nutrito e polivalente, dove tutti sono utili ma nessuno può permettersi il lusso di essere indispensabile.
Insistere su personaggi la cui barra dello stress è (anche solo parzialmente) piena può portare ad alcuni degli indesiderati effetti di cui sopra, che culminano anche con la morte del soldato, che rappresenta anche un danno economico per il giocatore, visti i costi necessari per migliorare gli equipaggiamenti ed insegnare nuove abilità ad ognuno degli effettivi.
Il miracolo più grande riuscito al team di sviluppo è sicuramente quello di aver trovato un equilibrio quasi perfetto tra difficoltà e divertimento, senza che mai si sfoci nella frustrazione: il “quasi” fa riferimento a situazioni limite, in cui un colpo inopinatamente mancato può lasciare spazio ad un contrattacco letale da parte di un nemico, ma queste sono evenienze cui gli appassionati dei due generi cui Darkest Dungeon si rifà (i giochi di ruolo a turni e i roguelike) dovrebbero essere usi.
Una sola volta in una sessantina di ore di gioco, distribuite tra la versione PC uscita qualche mese fa e le due in oggetto in questa recensione, abbiamo ritenuto di aver subito un’ingiustizia e abbiamo potuto incolpare la malasorte (e il gioco) del triste esito di una spedizione; tutte le altre volte che un combattente è caduto in battaglia, la colpa era da attribuire a nessun altro che a noi stessi, alla mancanza di cura per i dettagli o ad un rischio incautamente sottovalutato.
A proposito di rischi, all’equazione bisogna aggiungere anche il consumo progressivo di beni di prima necessità durante l’esplorazione: fidatevi se vi diciamo che avventurarsi nei dungeon senza scorte abbondanti di cibo e di torce significa mandare a morte certa (e atroce) tutti i membri del party.
Porting
Gran parte di quanto scritto finora suonerà familiare a quanti abbiano già avuto modo di perdersi nei meandri oscuri di Darkest Dungeon, ed adesso è giunto il momento di analizzare la qualità del porting per le due console Sony, soprattutto dal punto di vista dell’adattamento dei controlli, sprovvisti della salvifica accoppiata mouse/tastiera vista su PC.
Ebbene, nonostante l’inevitabile macchinosità dei menu, che adesso si sovrappongono e richiedono un uso intensivo dei dorsali e dei grilletti per una navigazione più efficiente, il lavoro svolto è soddisfacente, e l’interfaccia, comunque meno immediata di quanto non fosse su personal computer, riesce a non ostacolare il giocatore, mantenendosi nell’ambito di una user experience di buon livello.
Certo, su Vita le ridotte dimensioni dello schermo e la mancanza dei due grilletti rendono le cose ancora più complicate, ma la possibilità di portarsi dietro la propria avventura e di goderne senza limitazioni sia in salotto sia in metropolitana (cross buy e cross save sono entrambi supportati) controbilanciano brillantemente i piccoli compromessi supplementari richiesti.
Anzi, nonostante i font più piccoli e il gran numero di informazioni a schermo, è proprio sulla bistrattata console portatile di Sony che Darkest Dungeon offre il meglio di sé, soprattutto in caso si opti per un buon paio di auricolari e si spenga la luce, aumentando le similitudini tra il giocatore e i mercenari a schermo.
Peraltro, la struttura a turni e il fatto che nel villaggio (dove ci si perde nei menu) non si possa venire attaccati, rendono indolori eventuali lentezze legate all’interfaccia.
Artisticamente, poi, sia sulla televisione di casa, sia sullo schermo di Vita, Darkest Dungeon strappa applausi, non per i poligoni mossi o i muscoli mostrati dal motore di gioco, ma per lo stile inconfondibile, il disperato character design, la scelta delle voci, e la resa dinamica degli scontri, ottenuta tramite animazioni disegnate egregiamente e zoomate puntuali della regia virtuale.

– Unisce con disinvoltura elementi noti e brillanti novità

– Difficile e profondo

– Cross buy e cross save ve lo faranno gustare dovunque

– Di omaggi a Lovecraft non ce ne sono mai abbastanza

– Nessun contenuto aggiuntivo

– Interfaccia buona, ma con il mouse è tutta un’altra cosa

8.5

Alla luce dell’implementazione delle mai troppo lodate opzioni cross buy e cross save, di una resa visiva di pari livello e di un’interfaccia che riesce a non intralciare il giocatore anche senza un mouse, confermare lo stesso, ottimo voto che Darkest Dungeon seppe conquistarsi mesi fa su queste pagine è un obbligo.

In una generazione che abusa di remaster, la somiglianza dell’hardware di PS4 e Xbox One con i personal computer, che ci consente di godere di prodotti di nicchia come questo, che sarebbero altrimenti rimasti confinati al mercato PC, rappresenta un’opportunità da sfruttare, soprattutto quando i giochi sono della qualità, della difficoltà e della profondità dell’ultima fatica dei Red Hook Studios.

Voto Recensione di Darkest Dungeon - Recensione


8.5