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Cos'è un gioco?

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a cura di Marzo

Pubblicato il 07/10/2016 alle 00:00

In questo sito trattiamo dei videogiochi, del loro fantastico mondo, delle infinite esperienze che essi possono regalarci; ma non siamo mai stati capaci di soffermarci un secondo – o perlomeno ricordare a tratti – cosa significhi davvero la parola gioco. Molti di voi, qui nei commenti o nel nostro forum dedicato, hanno provato a dar voce alle loro idee in materia, sopratutto in merito a difficili casi studio quali Flower, Journey, Abzu o il più recente Virginia. Spesso definizioni superficiali di comodo spuntano in qualche recensione, speciale o qualsivoglia articolo legato al mondo dei videogiochi, anche nella stampa specializzata, cadendo più volte in errore o traendo in inganno molti lettori utilizzando vaghe definizioni per esaltare all’occorrenza un titolo piuttosto che un altro. Per questo motivo, dopo il primo speciale di approfondimento accademico riguardante le diverse tipologie di giocatori attraverso la Tassonomia di Bartle, noi di Spaziogames.it abbiamo deciso di sottoporre a voi, nostri cari lettori, il parere degli esperti e di coloro che hanno studiato per una vita intera l’arte di giocare. Riassumere in poche righe una delle attività portanti della umana risulta certo un arduo compito, sopratutto a causa di un uso improprio del termine “gioco” in vari ambiti o di una generale demonizzazione propugnata fino a pochi anni fa da fantomatici opinionisti incapaci di approfondire un mondo così vasto e complesso. Per questo motivo è stata fatta una selezione tra le definizioni considerate più importanti, capaci di descrivere, con una terminologia semplice ma accurata, le grandi potenzialità di questo medium.
Huizinga: gioco come attività libera 
La prima definizione analizzata è una tra le più citate nel settore; forse tra le più discusse e peggio recepite da coloro che sfiorano superficialmente questo tema: essa è contenuta nel saggio Homo Ludens (1938) di Johan Huizinga, storico olandese che tra i primi ha dato fondamentale importanza all’attività ludica nel percorso di sviluppo della cultura e della società umana. 
“Il gioco è un’attività libera che si pone in maniera consapevole al di fuori della vita ordinaria in quanto non seria, ma allo stesso tempo capace di assorbire il giocatore intensamente e completamente.”
In primo luogo è giusto sottolineare come l’aggettivo posto a fianco della parola attività, nelle parole di Johan Huizinga, sia libero: un gioco non deve essere forzato né imposto dall’alto attraverso leggi o costrizioni, bensì prevede che il partecipante vi si immerga volontariamente, accettando le regole e divenendo così giocatore. Quante volte, durante la nostra infanzia, abbiamo accettato di pessimo grado un’attività ricreativa imposta dai genitori? Da piccolo, per esempio, odiavo andare al parco per incontrare gli altri bambini; mentre per mamma – a cui bisognava ubbidire – ogni scusa era buona per incontrare le proprie amiche e scambiare quattro chiacchiere: durante quelle ore passate sotto un caldo sole estivo, tra mille zanzare e moscerini fastidiosi, il dondolarmi su un altalena o sul cavallino a dondolo non mi recava alcuna sorta di piacere o coinvolgimento. Il secondo punto da chiarire, forse il più controverso, riguarda invece la ‘non serietà’ che un’attività ludica deve possedere per poter essere definita tale. Essa denota la capacità del gioco di creare un contesto dall’opposto valore rispetto al reale: non è tanto il contenuto di una certa attività a qualificare la stessa come ludica, bensì la modalità in cui è condotta; modalità che non si rifà ad alcun proposito basato su considerazioni di opportunità o sull’adempimento di obblighi reali, ma che al contrario vive di regole stabilite non facenti parte del mondo esterno. Per farla semplice, ogni volta che ci immergiamo volontariamente all’interno di un videogioco varchiamo una sorta di Cerchio Magico entro il quale i limiti fisici imposti dalla realtà non valgono in alcun modo: l’ambiente creato dagli sviluppatori ci consente di vivere esperienze con risultati ben definiti, senza le terribili incertezze o la paura di fallire che nel mondo reale sono una costante capace di paralizzarci attraverso la paura dell’agire.
Suits e Juul: il gioco come sforzo volontario
La seconda e la terza definizione fungono invece da supporto e convalida a quella più nota di Huizinga, poiché entrambe si concentrano su aspetti più circoscritti dell’essere gioco. Esse però sono davvero importanti perchè ci permettono di comprendere due condizioni necessarie e inderogabili senza le quali un’esperienza ludica smette di essere tale. Nel 1978, all’interno del suo saggio The Grasshopper: Games, Life and Utopia, il filosofo Bernard Suits raccontava l’attività ludica in questi termini:
“Giocare rappresenta uno sforzo volontario atto a superare ostacoli non necessari.”
In questa seconda definizione viene posto l’accento sugli obiettivi intrinseci del gioco e sul rigore interno degli stessi. Il piacere di giocare dipende infatti dalle numerose sensazioni che si provano durante la competizione e il confronto, che coinvolga altri, se stessi o il sistema; aspetti scaturiti principalmente dalla tematica di conflitto tra il giocatore e l’ostacolo. Un esempio davvero semplice per chiarificare questo concetto può essere ricercato nell’attività quotidiana del giovane giocatore medio: dopo un’intensa giornata scolastica a base di interrogazioni e verifiche programmate, egli torna a casa e impugna il joystick, affrontando un’intensa sessione di gameplay su Dark Souls. Quest’ultimo non è certo l’archetipo di un videogioco semplice e rilassante, anzi, a volte può risultare frustrante e difficile da comprendere. Eppure molte persone intraprendono questa attività come parte della loro routine, sforzandosi di superare un ostacolo quale il classico boss di fine livello: nonostante sia un’attività per certi versi faticosa essa è assolutamente volontaria e il piacere di vincere una battaglia, con il conseguente rilascio di dopamina da parte di alcune ghiandole presenti nel nostro cervello, è di gran lunga maggiore rispetto a una semplice dormita sul comodo divano di casa. La terza definizione risale invece al 2005 ed è stata coniata dal game designer Jesper Juul, in uno scenario ormai trasformato dall’avvento dei videogiochi – in quell’anno venne infatti lanciato sul mercato il primo modello di Xbox 360, console ormai facente parte della sesta ‘generazione’ videoludica.
“Un gioco è un sistema formale basato su regole, con risultati variabili e quantificabili.” 
Il focus, su questa definizione, è chiaramente da porre nella parte finale, dove Juul sottolinea come l’attività ludica risenta di un output che varia da individuo a individuo, rendendo l’esperienza intima e personale. Non solo, essa è anche facilmente quantificabile: un esempio lampante è da ricercarsi nel sistema di punteggio presente nella serie Forza Horizon, che premia i giocatori capaci di esibire numeri da capogiro con la propria auto in una “catena” composta da moltiplicatori e combo bonus utili a guadagnare preziosi punti abilità.

Dopo aver analizzato le tipologie di giocatori attraverso la tassonomia di Bartle il nostro viaggio è quindi giunto a comprendere cosa sia davvero un gioco, aldilà delle più banali nozioni di base che tutti noi, bene o male, abbiamo appreso e facilmente assimilato. Prendetevi una pausa dopo quest’intensa lettura e sorseggiate un buon caffè con il sorriso sulle labbra: la prossima volta che affronterete con i vostri amici o colleghi la classica discussione su cosa sia effettivamente un videogioco avrete certamente qualche argomentazione in più con la quale ribattere. Concludendo con un piccolo spoiler, il prossimo speciale racconterà i tre pilastri alla base dell’esperienza videoludica, attraverso l’MDA Framework. A presto, cari lettori!

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