I bambini videogiocano troppo in tempo di pandemia (e fa male), secondo il NY Times

Un articolo del noto quotidiano americano fa discutere

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a cura di Paolo Sirio

Un articolo pubblicato nel fine settimana dal New York Times suggerisce che i bambini starebbero giocando troppo ai videogiochi in tempo di pandemia, e che la cosa potrebbe presentare danni irreparabili sul lungo termine.

L'articolo, naturalmente, ha scatenato le più reazioni feroci perché accusa il gaming, pratica abbastanza comune specie in una nazione controversa come gli Stati Uniti, sorvolando sui suoi effetti positivi in un momento storico in cui spesso siamo rinchiusi in casa per abbassare i rischi di contrarre il COVID-19.

L'autore Matt Richtel ha posto l'accento su storie di alcune famiglie i cui bambini passano molto tempo davanti alle loro console e sono preoccupati dal fatto utilizzano i videogiochi per socializzare o avere semplicemente un attimo di fuga dalla realtà quando questa si fa troppo dura.

Un caso sottolineato dall'autore vede un bambino di 14 anni rifuggiarsi nei videogiochi per provare a dimenticare il brutto momento della perdita del cane all'ultimo giorno dello scorso anno.

In genere, questo sarebbe letto come un fattore positivo del gaming, mentre il New York Times riporta una frase della madre che è emblematica del pensiero generale dell'articolo:

«Cosa farai quando sarai sposato e stressato? Dirai a tua moglie che hai bisogno di giocare all'Xbox?»

«È presentata come una cosa negativa», sottolinea giustamente Kotaku.

Un altro passaggio che fa discutere è l'osservazione di un padre che afferma di aver «fallito» con suo figlio semplicemente perché questi gioca ai videogiochi e usa uno smartphone.

Una madre, alla fine dell'articolo, spiega come «mi fa sentire male quando provo a porre delle restrizioni ora. È la sua sola socializzazione adesso».

Ovviamente lo è, ma a quanto pare il fatto che il gaming possa avere questa funzione trova ancora una certa avversione in chi lo vede come un demone da combattere, per qualche ragione, anziché un mezzo da padroneggiare anche per fini educativi e sociali.

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