Auditorium San Francesco. Un luogo raccolto, quasi sospeso nel tempo, dove si respira un silenzio reverenziale misto a curiosità. È qui che il pubblico del Lucca Comics & Games ha accolto uno degli incontri più attesi dell’edizione di quest’anno: “Silent Hill, Siren e altri incubi: la carriera artistica di Keiichiro Toyama”. Un titolo semplice, quasi didascalico, ma che nasconde dietro di sé un viaggio nell’inconscio collettivo del videogioco moderno. Perché Toyama, classe 1970, non è solo il creatore di Silent Hill, è colui che ha dato forma e sostanza alla paura come esperienza estetica, come linguaggio, come atto di introspezione.
Chi lo ascolta dal vivo, oggi, non vede il volto del mostro sacro del survival horror, ma quello di un uomo calmo, riflessivo, dallo sguardo pacato e un sorriso discreto. Un artista che, dopo aver attraversato i corridoi asettici delle grandi case di produzione, ha scelto di tornare all’essenza stessa della creazione: la libertà. Una parola che, nel contesto industriale contemporaneo del videogioco, suona quasi rivoluzionaria. E proprio da lì parte il suo racconto.
L’incubo come linguaggio
Quando nel 1999 Silent Hill arrivò sugli scaffali, pochi immaginavano che quel titolo avrebbe riscritto le coordinate dell’horror interattivo. In un’epoca in cui Resident Evil aveva già definito i canoni del genere, Toyama decise di percorrere una strada diversa.
«Volevo fare qualcosa di nuovo», racconta dal palco, «un gioco che non fosse solo un esercizio di tensione, ma un esperimento narrativo. Ho scelto uno stile pieno di sequenze legate al cinema, ma anche ricco di tecniche di gioco. Era un tentativo di portare il linguaggio cinematografico dentro un videogioco.»
È in quella fusione, imperfetta ma potentissima, che nasce l’identità di Silent Hill. Non un horror fatto di mostri e sangue, ma di assenza. La nebbia, la distorsione visiva, il suono che tradisce la presenza di qualcosa che non si vede. Toyama lo definisce “il cuore della paura invisibile”.
Un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario: la paura, per funzionare, non deve mostrarsi. Deve insinuarsi, respirare dentro i silenzi. «Il nemico è vicino, ma non si vede. Questo per me è l’essenza della paura», spiega. E così facendo, il game designer giapponese trasforma un limite tecnico (la nebbia usata per mascherare i limiti della PlayStation) in un tratto poetico, in un manifesto estetico dell’orrore psicologico.
Non stupisce, allora, che la sua principale fonte d’ispirazione sia Stephen King. «King ha uno stile horror moderno», afferma Toyama. «In quegli anni, tutti i videogiochi avevano un protagonista-eroe. Io invece volevo una persona normale, qualcuno in cui chiunque potesse riconoscersi. La paura nasce quando sei smarrito in un luogo sconosciuto, come nella nebbia di Silent Hill.»
È una dichiarazione che spiega, in retrospettiva, il perché Silent Hill resti ancora oggi un capolavoro senza tempo: perché non parla della morte o del mostruoso, ma della fragilità. Di quella sensazione che abbiamo tutti, quando la realtà si incrina e non sappiamo più dove finisce il mondo esterno e dove comincia quello interiore.
La fuga dall’incubo
Dopo aver consegnato alla storia uno dei titoli più importanti di sempre, Toyama decide di cambiare aria. «Dopo aver diretto il mio primo progetto ero mentalmente esausto. Non volevo più essere direttore, così decisi di cambiare ambiente.» Lascia Konami e approda in Sony, dove il suo talento incontra una nuova fase creativa. È il 2003 quando nasce Siren, un horror ancora più complesso, corale, inquietante. «Volevo creare qualcosa di originale. Ho pensato che non dovesse esserci un solo protagonista: tutti potevano esserlo.»
Non sei più solo chi fugge: sei anche chi insegue, senza capire perché. «In Siren puoi vedere dal punto di vista dei nemici, ma non puoi sapere chi sono. Questo genera un tipo diverso di paura.»
È la paura della conoscenza parziale, dell’empatia con il mostro. Toyama riesce ancora una volta a spostare il baricentro del genere, costruendo un’esperienza che non si limita a spaventare, ma costringe il giocatore a guardarsi dentro. E non a caso, dopo anni di orrore, sente la necessità di cambiare.
La leggerezza dopo il buio
Nel 2012 arriva Gravity Rush, una virata totale di tono e atmosfera. Kat, la protagonista, fluttua tra città sospese e prospettive invertite, in un universo che sembra nato da un sogno di libertà. «Avevo da tempo un’idea in mente in questo stile, volevo creare qualcosa di completamente diverso ma comunque personale», racconta Toyama.
E infatti, pur abbandonando l’horror, Gravity Rush conserva il suo marchio poetico: la solitudine, la meraviglia, l’idea di muoversi in un mondo che sfida le regole della gravità, e della logica.
È la dimostrazione che Toyama non è un autore prigioniero dei propri incubi. È, piuttosto, un artista che sa trasformare ogni idea in un’esperienza sensoriale, anche quando si libera dal peso dell’angoscia. Eppure, proprio quella leggerezza sembra preludere a un ritorno. Perché chi ha costruito la propria identità sulla paura non può abbandonarla del tutto. Può solo reinventarla.
La rinascita dell’indipendenza
Nel 2020, Toyama lascia Sony e fonda il suo studio indipendente: Bokeh Game Studio. «Era finito il feeling. Io ero abituato a creare cose particolari, mentre in Sony ormai si lavorava in grande. Volevo tornare a sperimentare.» Parole che raccontano molto più di un semplice cambio di azienda: sono la dichiarazione di un artista che rivendica il diritto di sbagliare, di rischiare, di creare senza compromessi.
Nasce così Slitterhead, un progetto che segna il ritorno di Toyama all’horror (e che abbiamo recensito qui), ma con una consapevolezza nuova. “Già ai tempi di Silent Hill volevo ambientare qualcosa in una grande città, ma allora non ci ero riuscito. Con Slitterhead ho potuto finalmente realizzare quell’idea nata negli anni ’90.” Una città viva, pulsante, dove il confine tra umano e mostruoso si dissolve. Un incubo urbano che si nutre delle stesse inquietudini che oggi attraversano le nostre metropoli: l’anonimato, la paura dell’altro, la disumanizzazione.
In Slitterhead non c’è più la nebbia di Silent Hill, ma un’oscurità più sottile e contemporanea: quella della società. E Toyama, ancora una volta, sembra ricordarci che l’orrore più autentico non è mai soprannaturale, ma umano. Che il vero mostro, spesso, siamo noi.
L’incontro si è chiuso con un momento simbolico: la cerimonia dell’impronta delle mani di Keiichiro Toyama, che da oggi entreranno a far parte della collezione dei grandi maestri onorati dal Lucca Comics & Games. Un gesto solenne, ma anche profondamente umano. Perché dietro quelle mani, apparentemente tranquille, si nasconde la mente che ha plasmato alcuni degli incubi più iconici della storia videoludica.
Guardando Toyama sorridere timidamente mentre il pubblico lo applaude, viene da pensare che l’orrore, per lui, non sia mai stato una questione di terrore, ma di empatia. La paura, nella sua visione, è un linguaggio universale, un modo per esplorare ciò che ci definisce. E in tempi in cui il videogioco tende sempre più all’efficienza e al calcolo, lui continua a difendere la vulnerabilità come forma d’arte.
Keiichiro Toyama non è solo il padre di Silent Hill. È un artigiano dell’inquietudine, un poeta della dissonanza, un autore che ha saputo trasformare il medium in una lente sull’animo umano. Oggi, a distanza di venticinque anni dal suo primo incubo, il suo messaggio resta intatto: non c’è vera bellezza senza oscurità, e non c’è paura senza amore per la vita.