Troppo difficile. Troppo punitivo. Troppo “ingiusto”. Hollow Knight: Silksong, atteso per anni come la nuova Bibbia dei metroidvania, non fa eccezione.
Anzi, amplifica il tutto, trasformando il dibattito in un ring virtuale dove l’utenza si divide tra chi rivendica il diritto alla sfida e chi reclama una presunta accessibilità negata.
È lo stesso disco che rimbalza ciclicamente da Dark Souls a Cuphead, passando per Sekiro e ora, ovviamente, per Hornet e il suo viaggio.
E allora la domanda diventa: è davvero il gioco ad essere troppo difficile o siamo noi ad essere diventati troppo fragili?
Quando la difficoltà è tutto
Perché il punto, mi dispiace dirlo, è sempre quello. Non è mai solo questione di design o di scelte artistiche: è il riflesso di una società che pretende il controllo, che odia la frustrazione, che si indigna se una porta resta chiusa.
Nel caso di Silksong, le accuse sono precise: i runback (ossia quei tragitti da rifare dopo ogni morte) spezzano il ritmo, allungano artificiosamente i tempi e rendono ogni sconfitta più amara del necessario.
Molti giocatori parlano di “danni doppi” inflitti dai nemici, di un sistema che “non premia, ma punisce”, di un livello di sfida che respinge piuttosto che accogliere. E sì, la critica ha il suo fondamento. Non tutti hanno voglia di ripetere per la ventesima volta un corridoio di spine e insetti ostili solo per tornare al boss di turno. Ma è davvero questo il punto? È davvero questa la misura con cui dobbiamo giudicare l’erede di Hollow Knight?
La verità è che il videogioco, oggi, si trova intrappolato in una contraddizione velenosa. Da un lato c’è il pubblico che reclama esperienze comode, inclusive, alla portata di chiunque e di qualunque tempo libero. Dall’altro ci sono studi come Team Cherry che inseguono una visione precisa, fatta di ostacoli, cadute, sudore e trionfi sudati.
E allora ecco lo scontro: chi non accetta di soffrire chiede patch, opzioni, scorciatoie; chi invece celebra la difficoltà come parte integrante del racconto si scaglia contro ogni forma di ammorbidimento. Nel mezzo, una guerra di nervi che dice molto più su di noi che non sul gioco stesso.
Prendiamo ad esempio l’ossessione per i runback. Molti giocatori sostengono che siano una tortura inutile, un fardello che spezza il divertimento. Altri ribattono che proprio lì sta la differenza: senza il percorso, senza la ripetizione, senza la tensione crescente, il boss diventerebbe un checkpoint qualsiasi, un ostacolo da tentare infinite volte finché la memoria muscolare non fa il suo lavoro.
È la ripetizione a creare la paura, a rendere prezioso ogni tentativo, a insegnarci che il fallimento ha un costo. Possiamo davvero liquidare tutto questo come “tempo perso”? O non sarà piuttosto che il videogioco ci sta ricordando, fastidiosamente, che la vita non ha scorciatoie e che i risultati hanno senso solo se non arrivano subito?
Il paradosso, qui, è lampante. Siamo i primi a celebrare il cinema che osa, i romanzi che non concedono sconti, le serie tv che non spiegano tutto al primo episodio. Ci piace la complessità quando riguarda le narrazioni, quando ci fa sentire adulti, sofisticati.
Ma se un videogioco osa alzare la posta in gioco, se osa ricordarci che la sconfitta è parte dell’esperienza, subito scatta il piagnisteo collettivo. È come se avessimo interiorizzato l’idea che il medium interattivo debba essere per forza un parco giochi, mai un campo di battaglia. Una visione infantile, ed è qui che si apre la polemica vera: non è Silksong a essere troppo difficile, siamo noi che non sappiamo più affrontare la difficoltà.
E attenzione: non sto parlando solo dei casual gamer. Anzi. Spesso sono i cosiddetti veterani, i fan della prima ora, a lanciarsi nei post più velenosi, convinti che il gioco “tradisca” le attese perché li costringe a uscire dalla comfort zone. Ma di quale tradimento parliamo?
Chi ha giocato Hollow Knight sa bene che il mondo di Hallownest non era affatto tenero, e che gran parte del suo fascino derivava proprio da quell’aria di ostilità costante. Pensare che il sequel dovesse in qualche modo semplificare l’esperienza è stato un abbaglio generazionale, figlio di un’industria che negli ultimi dieci anni ha preferito addolcire ogni pillola piuttosto che chiedere ai giocatori di crescere insieme ai suoi prodotti.
Certo, esistono anche le ragioni pratiche. Non tutti hanno dieci ore a settimana da dedicare a un videogioco. Non tutti hanno i riflessi, la pazienza, la resistenza mentale per accettare una curva di difficoltà che sale senza compromessi. Ma allora la questione è ancora più chiara: non tutti i giochi sono per tutti. Ed è qui che casca l’asino, perché abbiamo scordato una verità elementare: l’universalità non è un obbligo.
Nessuno pretende che Baldur’s Gate 3 sia accessibile a chi non sa leggere l’inglese, nessuno pretende che Football Manager sia immediatamente comprensibile per chi non ha mai visto una partita. Eppure, quando si parla di difficoltà, improvvisamente pretendiamo che tutto si pieghi alle nostre esigenze. Come se il videogioco fosse un servizio pubblico, non un’opera artistica.
Il problema, forse, è che abbiamo perso il gusto per il fallimento. In un mondo che ci ha abituati al “retry” immediato, al salvataggio automatico, alla gratificazione istantanea, l’idea stessa di dover ricominciare suona come un affronto personale.
È quasi un insulto, come se Team Cherry ci stesse dicendo: “Non vali abbastanza”. Ma non è questo il messaggio. Il vero insegnamento è un altro: “Puoi valere di più, se resisti”. Una lezione dura, certo, ma che restituisce al videogioco quel potere catartico che troppe produzioni hanno smarrito. La frustrazione è reale, ma anche la soddisfazione. E senza la prima, la seconda non esiste.
Ma la soluzione non può essere il livellamento verso il basso. Il rischio di addomesticare tutto, di sterilizzare l’opera per non offendere nessuno, è ben peggiore di quello di vedere qualcuno abbandonare il pad. Meglio perdere una fetta di pubblico che tradire l’identità. Perché se Silksong smettesse di essere spietato, smetterebbe di essere Silksong.
E allora, forse, la vera domanda da porsi non è se Silksong sia troppo difficile, ma se noi siamo ancora disposti a lasciarci mettere alla prova. Perché dietro ogni runback, dietro ogni nemico che infligge danni doppi, c’è un’idea di videogame che rifiuta di essere un prodotto usa e getta. È un’idea che ci invita a rallentare, a imparare, a sbagliare, a insistere. In un’epoca che misura tutto in binge watching e scroll compulsivo, questa è forse la provocazione più radicale che un titolo possa offrirci. Non un passatempo, ma un esercizio di resilienza.
E qui arrivo alla conclusione, con una riflessione che farà storcere il naso a molti. Silksong non è troppo difficile: siamo noi che siamo diventati troppo facili. Non accettiamo più il dolore ludico, non tolleriamo l’attesa, non sopportiamo l’idea di non avere tutto subito. E allora il problema non è Hornet, non è Team Cherry, non è il design punitivo. Il problema siamo noi, che abbiamo perso il contatto con la fatica come parte essenziale dell’esperienza.
Se vogliamo giochi che ci accarezzino e basta, accomodiamoci pure. Ma non lamentiamoci poi se, un giorno, scopriremo che ci siamo privati dell’unica vera emozione che il medium sapeva regalarci: il brivido di un ostacolo superato quando ormai non ci credevamo più.