I vecchi videogiochi spariscono perché ai publisher interessano i soldi, non la storia

Uno studio della Video Game History Foundation svela che l'87% dei giochi usciti prima del 2010 non è più in stampa. Ma dove va un medium senza storia?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Un po' di tempo fa, durante una diretta in compagnia del nostro deputy editor Domenico Musicò, chiacchierammo con i nostri lettori di un tema piuttosto spinoso: la preservazione dei vecchi videogiochi.

Rispetto ad altri mezzi di comunicazione, quello videoludico ha infatti diversi spigoli a cui far fronte: il fatto che siano necessarie, almeno in teoria, macchine specifiche per far girare un vecchio software, ad esempio.

Così, durante questa chiacchierata, arrivammo a un quesito a cui era difficile dare risposta: «tra vent'anni, quando si parlerà di storia dei videogiochi, quelli più lontani nel tempo sarà possibile solo guardarli? Come potremo recuperarli?». 

E questo, badate bene, sottolineando che la storia dei videogiochi non risiede solo in quelli di successo, che hanno segnato le ere geologiche dell'evoluzione del medium. È difficile pensare che, un giorno, non riusciremo più a recuperare Super Mario Bros., insomma.

Cosa ne è, invece, di quelli che hanno fatto parte di quella storia, ma che sono destinati all'oblio? Se volessimo applicarlo ai libri, su due piedi, con un'autrice che amo: quanti La Quasi Luna – di meno successo e quindi meno "ambiti" – perderemo noi videogiocatori, nel susseguirsi degli anni, perché ci siamo preoccupati di preservare solo Amabili Resti perché «quello vende»?

Secondo lo studio pubblicato dalla Video Game History Foundation, parecchi. E allora cosa stiamo qui a fare, a ripeterci che il videogioco è una forma espressiva, se la prima a trattarlo come una macchina da soldi le cui opere sono cestinabili è l'industria stessa?

Un medium senza storia

Come discutevamo nella nostra notizia dedicata, i numeri resi noti dalla VGHF sono piuttosto impietosi: l'87% dei videogiochi usciti prima del 2010 non è più in stampa e quindi non è più possibile recuperarlo.

I numeri tengono conto anche delle rimasterizzazioni: se queste sono estremamente fedeli, valgono come possibilità di "recupero" del classico che ripropongono. Se apportano cambiamenti sostanziali, sono considerate un gioco a sé (come Yakuza Kiwami)– mentre il classico finisce nel dimenticatoio.

Se volete una proporzione che renda bene l'idea, oggi è ancora accessibile solo il 10% degli audio registrati prima della Seconda Guerra Mondiale. Possiamo ancora accedere al 14% dei film muti americani. E al 13% dei videogiochi usciti prima del 2010.

Oggi possiamo ancora accedere al 14% dei film muti del cinema americano. E al 13% dei videogiochi usciti prima del 2010.
«Provate a immaginare se l'unico modo per vedere Titanic fosse trovare una videocassetta, e continuare ad avere un riproduttore di videocassette per poterlo guardare» ha spiegato la VGHF, sottolineando che per il cinema la cosa ci sembra così assurda da sforare nel grottesco. Solo che nei videogiochi è proprio così.

«E pensate se nessuna biblioteca, nemmeno la Library of Congress, potesse fare niente di meglio: potrebbero tenere la VHS di Titanic e digitalizzarla, ma dovreste andare fisicamente fino a lì per poterla guardare. Sembra una follia, ma è la realtà che viviamo con i videogiochi: un'industria da $180 miliardi, mentre i videogiochi e la loro storia scompaiono».

Guardati nel dettaglio, i dati resi noti dalla VGHF colpiscono anche di più: solo il 15% dei giochi usciti tra il 2000 e il 2004 è ancora facilmente reperibile. Quindi no, non stiamo parlando dei primissimi classici, ingoiati dal tempo. Dell'intera libreria di PlayStation 2, oggi è recuperabile il 12%. Del glorioso Commodore 64, ci fermiamo al 4,5%.

Il problema è palese: quando in futuro studieremo l'epoca di PS2, per ripercorrere la storia del videogioco, ci sarà una voragine sull'88% dei giochi usciti su quella piattaforma – di cui magari potremo leggere, di cui magari si troveranno dei video, ma che non si potranno giocare.

E come puoi conoscere un gioco se non puoi giocarci?

Scelgo io cosa rivenderti

Il dibattito sulla preservazione dei videogiochi, purtroppo, non è nuovo. Qualche tempo fa ne discutemmo sulle nostre pagine con l'Archivio Videoludico di Bologna, quando ci trovammo di fronte alla chiusura di PlayStation Store sulle piattaforme portatili di Sony.

E, di recente, sappiamo che la storia si è ripetuta, con la chiusura degli store su alcune vecchie piattaforme Nintendo – ultimo baluardo dove si potevano trovare, quantomeno in digitale, i giochi delle loro librerie. 

Il sempre colorito Hideki Kamiya, tempo addietro, fece notare che preservare i videogiochi dovrebbe essere «obbligo delle aziende», perché ci sono molte opere che non sono più disponibili e, quando hanno avuto delle copie fisiche, finiscono ovviamente nel giro dei collezionisti, a cifre non certo accessibili per noi mortali – e in un discorso con logiche del tutto diverse: rispondere che puoi sempre comprarti un classico a seimila euro da un collezionista non fa preservazione, incoraggia solo i tentativi di bagarinaggio.

L'unica cosa che, al momento, l'industria sta facendo è, di tanto in tanto, spolverare qualche classico incluso in dei servizi in abbonamento, o provare a riesumarlo con delle rimasterizzazioni (a volte vendute a prezzi fuori da ogni logica, ma tant'è).

Non è un caso: come sottolineava la VGHF, infatti, per l'ESA e i suoi membri sarebbe sconveniente che i videogiochi classici fossero accessibili in musei, biblioteche o enti affini, volti alla preservazione culturale. I videogiochi, insomma, non sono questione di cultura, nemmeno per chi li crea: sono solo questione di soldi. Perfino quando sarebbero loro stessi a definirli vetusti e superati.

Dimentica il vecchio: il nuovo è più grande, più bello

C'è, dopotutto, un tormentone che coinvolge sempre il modo in cui ci vengono presentati (e venduti) i videogiochi: il nuovo che è sempre più bello, più grande, più esteso, più tutto. Non vale, purtroppo, solo con i videogiochi annuali – e, in questo, i videogame somigliano un po' alla presentazione dei nuovi smartphone, dove si passano per meraviglie cose di cui nessuno sentiva il bisogno, creando un'offerta per una domanda che non esisterebbe, se non fosse dipinta come next big thing.

I videogiochi fanno allo stesso modo. Il prossimo episodio di Gioco X sarà più grande del vecchio, e migliora la grafica, e migliora tutto: insomma, che te ne fai del vecchio? È obsoleto: compra quello nuovo e gioca con quello.

Il silenzio sulla preservazione va di pari passo con il fatto che l'industria, per rendere più appetibile una nuova uscita, passi dal definire obsoleto il capitolo precedente.
Considerando quanto sia radicata nell'industria questa filosofia, non sorprende allora vedere una preservazione dei videogiochi praticamente inesistente. A meno di trovare il modo di monetizzarli – comprensibile, non sono enti di beneficenza – i publisher non hanno l'iniziativa né a quanto pare l'interesse per salvaguardare la memoria dei loro classici, soprattutto di quelli meno riusciti, che non contano sulla leva commerciale della nostalgia.

Certo, non sono enti di beneficenza nemmeno le major cinematografiche, né lo sono le case editrici. Nel caso dei videogiochi, però, la resistenza sta proprio lì: non abbiamo ancora trovato il modo di tracciare una linea di confine, di far capire il peso di ricordare le tappe del videogioco – e non solo elencandole su un libro che ne ripercorra la storia, ma rendendo accessibili quelle opere. Leggere dell'impatto e della genesi de I Promessi Sposi e leggere I Promessi Sposi sono due cose diverse. Ai videogiocatori, per molte epoche videoludiche, rimarrà solo la prima opzione.

Come sottolineava la VGHF, al momento non c'è una soluzione facile, da trovare. Un primo passo, però, sarebbe vedere riconosciuto il problema, per poterne quantomeno discutere e provare a trovare una soluzione.

In caso contrario, il videogioco ha la forza e le stigmate per essere un medium, ma i videogame vengono identificati come prodotti da consumare e gettare via, di corsa verso il prossimo che è più grande e più bello, e non come opere di ingegno creativo – perfino da chi quell'industria la incarna.

Se alla maturità del videogioco in quanto opera non ci crediamo nemmeno noi, che diciamo di amarlo o che lavoriamo in questa industria, allora che futuro potrebbe mai avere un medium condannato a raccontare la sua storia in seconda persona?