C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui la grafica di un videogioco era solo un mezzo. Uno strumento. Non la fine, non il punto d’arrivo, ma una componente (tra tante ) che contribuiva a creare qualcosa di più grande: un’esperienza. Un’avventura. Un’idea.
Oggi, invece, sembra che la priorità di gran parte dell’industria sia diventata una sola: far sgranare gli occhi. Impressionare. Dimostrare al mondo di essere i più forti, i più dettagliati, i più realistici. E poco importa se, mentre ci si affanna a inseguire la perfezione visiva, tutto il resto cade a pezzi.
Lo ha detto, senza troppi giri di parole, Del Walker. Ex artista di Naughty Dog, veterano dell’industria, uno che ha lavorato su titoli come The Last of Us Part II Remastered (che trovate su Amazon) e Star Wars Jedi: Survivor.
Non un nostalgico fuori tempo massimo, né un ex dipendente rancoroso. Uno che il sistema lo conosce, perché ci è dentro fino al collo. E che proprio per questo, quando afferma che «l’ultra-realismo ha praticamente rovinato i videogiochi», merita di essere ascoltato con attenzione.
Il mito dell’ultra realismo
L’industria videoludica ha sempre avuto una certa ossessione per il salto grafico. È un fatto. Ogni nuova generazione è stata accompagnata da slogan altisonanti e promesse di mondi sempre più vicini al “fotorealismo”. Da un certo punto di vista, è comprensibile: la grafica è ciò che il giocatore vede per primo, è il biglietto da visita che apre la porta dell’immaginazione.
Ma il problema nasce quando quel biglietto diventa l’intero spettacolo. Quando tutto, dalla progettazione alle scelte produttive, ruota attorno a un solo obiettivo: essere il più realistici possibile. Senza chiedersi se davvero serva. Senza chiedersi se davvero ne valga la pena.
E così, mentre una volta Naughty Dog era in grado di pubblicare quattro titoli in una sola generazione di console, oggi rischia seriamente di non pubblicarne nemmeno uno di nuovo durante l’intero ciclo di vita di PS5. Un dato che fa riflettere. E che non riguarda solo Naughty Dog, ma l’intero settore AAA.
Secondo quanto riportato da Walker, e confermato da molti altri sviluppatori dietro le quinte, oggi una semplice sequenza di movimento può richiedere fino a 50 animazioni distinte. Non stiamo parlando di un boss fight complessa o di una scena cinematografica.
Parliamo di camminare, correre, girarsi e saltare. Quello che un tempo richiedeva sei animazioni stilizzate oggi è diventato un incubo produttivo. E non solo per le animazioni: ogni singolo asset, ogni shader, ogni riflesso richiede settimane, mesi, revisioni infinite, correzioni maniacali.
E poi ci si stupisce se i giochi vengono rinviati. Se i budget esplodono. Se ogni progetto diventa una scommessa insostenibile. Ma cosa ci aspettavamo? Che costruire mondi più realistici della realtà non avesse un costo? Che bastasse spingere un cursore verso destra per ottenere la “next-gen”?
Il paradosso è evidente: nel tentativo di sembrare più veri del vero, molti studi sono costretti a rallentare, a tagliare contenuti, a rimandare sine die. E quando finalmente il gioco arriva sugli scaffali, fisici o digitali, ha un sapore strano. Tecnicamente sbalorditivo, sì. Ma vuoto, impersonale, prevedibile.
Quando il dettaglio uccide il sogno
Il realismo non è il male in sé. Sarebbe sciocco sostenerlo. Titoli come Red Dead Redemption 2, Death Stranding o lo stesso The Last of Us Part II dimostrano che un’estetica realistica può andare a braccetto con una visione autoriale e profonda. Ma sono eccezioni. Non regole.
Il problema nasce quando il realismo diventa l’unica via possibile. Quando ogni progetto deve sembrare una serie TV di HBO per essere considerato “valido”. Quando il peso delle aspettative uccide ogni slancio creativo.
Un tempo, i limiti tecnici costringevano gli sviluppatori a inventare soluzioni. A semplificare, stilizzare, suggerire. Ed era proprio lì che nasceva la magia: negli spazi vuoti, nelle astrazioni, nei silenzi. Oggi, invece, si vuole mostrare tutto. Riempire ogni pixel. Dare al giocatore un’esperienza perfetta, rifinita, chirurgica. Ma anche sterile. Anche prevedibile.
Walker quindi lo dice con chiarezza: l’industria si sta impiccando da sola alla corda dell’ultra-realismo. E i segnali sono ovunque. C’è chi licenzia in massa dopo flop tecnici da 100 milioni di dollari. C’è chi promette sequel che non arriveranno prima di un decennio. C’è chi, per mantenere lo standard visivo, sacrifica varietà, contenuto, gameplay.
In questa corsa disperata, a rimetterci non è solo il tempo o il denaro, ma soprattutto il giocatore. Che si ritrova ad aspettare anni per titoli che, una volta usciti, sembrano più una tech demo che un gioco. Bellissimi da vedere, certo. Ma privi di quel senso di scoperta, di meraviglia, di libertà che un tempo definiva il medium.
Per non parlare dell’effetto domino sulle produzioni minori: i giochi indipendenti, pur essendo più agili e creativi, si ritrovano a dover competere con standard visivi impossibili. E spesso vengono scartati a priori dal grande pubblico perché “sembrano da PS3”. Anche quando sono infinitamente più interessanti di certe produzioni da 150 milioni.
C'è un'altra via
Eppure, qualche spiraglio c’è. Uno su tutti: Clair Obscur: Expedition 33. Il titolo ha fatto parlare di sé per uno stile visivo unico, ispirato. Ma la cosa più sorprendente è il budget: inferiore a quello di giochi del 2008.
Una dichiarazione che suona come una bomba nel panorama attuale. Perché dimostra che si può ancora fare. Si può ancora creare qualcosa di artisticamente potente senza per forza bruciare mezzo miliardo di dollari.
E allora viene da chiedersi: perché continuiamo a inseguire il miraggio del realismo totale? Perché il mondo videoludico, così innovativo sotto molti aspetti, si comporta come un’industria vecchia, rigida, schiava del proprio passato?
Forse perché ha paura. Paura di sembrare “inferiore” rispetto al cinema o alla TV. Paura di deludere un pubblico che in realtà, spesso, vuole solo qualcosa che lo sorprenda, che lo tocchi, che lo faccia sentire vivo.
A ben vedere, questa ossessione visiva è figlia di un problema più grande: l’idea sbagliata che il valore di un videogioco sia determinato da quanto assomiglia alla realtà. È una trappola culturale, prima ancora che tecnica. Una forma di complesso d’inferiorità che ci portiamo dietro da anni. E che rischia di soffocarci.
Il videogioco non deve diventare “realistico”. Deve essere “credibile”. Deve creare mondi coerenti, universi affascinanti, meccaniche coinvolgenti. Se poi lo fa con uno stile grafico da cartone animato o con la fotografia di un film, poco importa. Quello che conta è cosa vuole raccontare, e come lo fa.
E invece oggi sembriamo tutti intrappolati in una corsa verso un traguardo che non esiste. Perché il realismo perfetto non esiste. È un’illusione. E chi cerca di afferrarlo rischia solo di bruciarsi le mani.
Questo mio sfogo potrebbe concludersi con un invito all’equilibrio. A usare il realismo come uno strumento, non come un fine. A recuperare il senso del videogioco come linguaggio, non come simulazione. Ma forse è già troppo tardi per le buone maniere.
Forse è il momento di dire le cose come stanno: questa industria si sta scavando la fossa con le sue stesse mani. E se non cambiamo rotta in fretta, ci ritroveremo con giochi bellissimi, ma senza giocatori. Con trailer perfetti, ma senza anima. Con software house chiuse, licenziamenti a valanga, e la solita retorica delle “aspettative del pubblico”.
Walker ha avuto il coraggio di dirlo. Ora spetta a chi lavora nel settore (e a chi lo racconta) trovare il coraggio di ascoltarlo. E magari, anche di fare qualcosa.