«Remember a goodbye, Remember an afternoon, Remember making plans, Remember where it all began, Remember Reach.»
Poche frasi nella storia dei videogiochi hanno avuto il peso, la gravità e la promessa malinconica di questo slogan. Era il 2010 e Bungie, lo studio che aveva dato vita a una delle saghe più iconiche di sempre, si preparava a dire addio all'universo di Halo.
Un addio che non fu certamente un'uscita di scena silenziosa, ma un ultimo, fragoroso canto del cigno: un requiem struggente. A quindici anni esatti dall'uscita di Halo: Reach, ricordiamo che cosa significava essere un eroe dinanzi a una sconfitta certa.
Halo: Reach non era un gioco come gli altri. Arrivava dopo una trilogia che aveva consacrato la figura di Master Chief come un semidio invincibile, un'icona fantascientifica capace di salvare l'umanità da solo contro ogni probabilità. Eravamo abituati a vincere. Eravamo abituati a essere l'unica speranza della galassia. Reach, invece, ci mise di fronte a una verità scomoda e terribile: a volte, anche gli eroi cadono. E a volte, l'unica vittoria possibile è assicurarsi che qualcun altro abbia la possibilità di combattere domani.
La grande storia di Reach
Reach è una delle storie di Halo più importanti e memorabili. Sin dall'origine di Halo: Combat Evolved, Josepth Staten e Frank O'Connor avevano già abbozzato gran parte della lore dell'universo videoludico (qui se volete approfondire) che da lì a poco sarebbe diventato un fenomeno senza precedenti nel panorama degli sparatutto in prima persona.
La vicenda della disfatta di Reach divenne popolare grazie al romanzo "La Caduta di Reach", una delle novel dedicate ai videogiochi più vendute di sempre, anche in virtù di ciò che raccontava e approfondiva, ovvero la nascita di Master Chief e la devastazione del secondo pianeta più importante dell'umanità.
Per questo motivo l'annuncio di Halo: Reach durante l'E3 2009 fece molto scalpore: tutti volevamo l'adattamento videoludico di quella storia, seppur sapevamo (come recita anche il teaser) che sin dal principio sapevamo come sarebbe finita.
A ogni modo Halo: Reach evitò di adattare il romanzo (quello ci provò la serie TV con poco successo e il bellissimo film animato Halo: The Fall of Reach) e prese la coraggiosa strada di introdurre nuovi protagonisti e una storia parallela.
Che cosa era Halo: Reach?
Il gioco si rivelò ovviamente un prequel, ambientato nelle settimane immediatamente precedenti agli eventi di Halo: Combat Evolved. La sua fine era, per chiunque conoscesse la storia, già scritta. Il pianeta Reach, la fortezza militare dell'UNSC, la culla del programma SPARTAN-II, era destinato a cadere. Bruciare. Essere "vetrificato" dalla furia devastante dei Covenant.
Bungie non cercò di ingannarci con un finale a sorpresa. Al contrario, costruì un'intera epopea sul dramma di questa consapevolezza. Ogni piccola vittoria, ogni avamposto riconquistato, ogni nave nemica abbattuta, era intrisa di un'amarezza profonda, perché sapevamo che era solo un modo per guadagnare tempo a una fine inevitabile.
In questo scenario da tragedia greca, non impersonavamo il solitario Master Chief, ma un membro di una squadra: Noble Six. Accanto a noi c'era il Noble Team, un gruppo di Spartan-III, soldati eccezionali ma, per la prima volta nella serie, tangibilmente umani.
Carter-A259, il leader stoico gravato dal peso del comando; Kat-B320, la brillante e pragmatica specialista tecnologica; Jun-A266, il silenzioso cecchino; Emile-A239, il guerriero feroce con il suo teschio inciso sul casco; e Jorge-052, il "gigante buono", l'unico Spartan-II del gruppo, che portava con sé un'umanità e un senso del dovere quasi paterni.
Questi non erano avatar invincibili. Sanguinavano, le loro armature si scheggiavano, e provavano frustrazione e paura. Il legame che il gioco creava con loro era il vero motore narrativo. Li vedevamo interagire, scherzare, discutere strategie. E, uno a uno, li vedevamo cadere. La narrazione di Reach non si basava su antiche profezie o anelli galattici, ma sul legame cameratesco e sul costo umano della guerra.
Il tono era radicalmente diverso: più cupo, più sporco, più militaristico. La colonna sonora di Martin O'Donnell e Michael Salvatori abbandonava in parte i canti gregoriani eterei per abbracciare percussioni martellanti e temi solenni, la musica perfetta per una marcia funebre.
Anche il gameplay rifletteva questa nuova filosofia. Reach introdusse le "Armor Abilities", abilità equipaggiabili che cambiavano radicalmente il ritmo del combattimento.
Lo Sprint, il Jetpack, l'Ologramma, la Corazza Corazzata (Armor Lock) e l'Invisibilità Attiva aggiunsero un nuovo strato di personalizzazione e strategia al classico "triangolo d'oro" di Halo (armi, granate, corpo a corpo). Sebbene questa scelta abbia generato dibattiti accesi tra i puristi del multiplayer, ha innegabilmente reso il sandbox di Reach più vario e imprevedibile che mai. Il ritorno dei medikit, inoltre, costringeva i giocatori a un approccio più tattico e meno spericolato.
Remember Reach
Quello che ricordiamo con grande amore e affetto è sicuramente la campagna single player. Era una sequenza quasi ininterrotta di momenti memorabili, un crescendo di disperazione e eroismo.
La missione Lunga Notte di Consolazione, con la sua spettacolare sezione di combattimento spaziale a bordo dei caccia Sabre, ci diede un assaggio di speranza, facendoci sognare di poter respingere l'invasione (e per chi non conosceva la storia, forse ci ha persino pensato). Un'illusione subito infranta dall'arrivo di una super-portaerei Covenant che oscurò il cielo.
Da quel momento, la discesa fu inesorabile. Attraversammo la metropoli in fiamme di New Alexandria, testimoni impotenti della vetrificazione e del panico dei civili. Combattemmo fino all'ultimo respiro per scortare un pezzo di storia, l'IA Cortana, verso la nave che avrebbe cambiato il corso della guerra: la Pillar of Autumn.
E poi, l'epilogo. La missione finale, "Lupo Solitario". L'obiettivo era tanto semplice quanto impossibile: "Sopravvivi". Rimasti soli su un pianeta morente, con il visore del casco incrinato e ondate infinite di Covenant che si riversavano su di noi, combattevamo.
Non per vincere, non per scappare. Combattevamo perché era tutto ciò che restava da fare.
La visuale che si sporcava, i colpi che diventavano sempre più difficili da schivare, fino all'inevitabile momento in cui venivamo sopraffatti. Non era un "Game Over", era la fine della storia. Una delle conclusioni più potenti, audaci e poetiche mai realizzate in un videogioco, che incapsulava perfettamente il tema centrale del gioco: l'onore nel sacrificio.
Soprattutto, Halo: Reach è stato l'addio perfetto di Bungie al suo universo. Un atto d'amore e, allo stesso tempo, un passaggio di consegne. Raccontando la storia della caduta, hanno reso la successiva ascesa di Master Chief ancora più importante. Hanno dato un volto e un nome ai sacrifici senza i quali la vittoria non sarebbe mai stata possibile.
"Remember Reach". Non era quindi solo uno slogan, era una richiesta ai giocatori. E quindici anni dopo, noi ricordiamo. Ricordiamo i cieli grigi, il suono del DMR, la determinazione di Carter, l'ingegno di Kat, la furia di Emile e il cuore di Jorge. Ricordiamo la nostra ultima, disperata difesa. Ricordiamo l'onore, il coraggio e il sacrificio. Ricordiamo il miglior addio che un creatore potesse dare alla sua più grande creazione.