Sette anni. È il tempo che ci separa da Shadow of the Tomb Raider, ultimo capitolo della trilogia “Survivor” che aveva riportato Lara Croft al centro della scena.
Sette anni in cui il mondo del gaming è cambiato radicalmente, tra acquisizioni miliardarie, mode effimere e un’industria sempre più ossessionata dai live service. Sette anni in cui, paradossalmente, una delle icone più riconoscibili della storia dei videogiochi è rimasta intrappolata in un limbo fatto di cameo in giochi altrui, skin cosmetiche e promesse nebulose.
Lara non è scomparsa, certo: l’abbiamo vista apparire in Fortnite, in Call of Duty, in Dead by Daylight, persino in Naraka: Bladepoint. Una presenza, però, che sa di comparsata di lusso, più simile a quella di una star del cinema caduta in disgrazia, costretta a firmare contratti pubblicitari per restare sulla bocca di tutti, piuttosto che a un’eroina pronta a riconquistare il palcoscenico.
Una mossa di brand awareness, direbbero i marketer. Ma per i fan, che aspettano un nuovo capitolo vero, resta solo il sapore amaro di una presa in giro.
Perché il punto è chiaro: Tomb Raider (che trovate su Amazon in tutte le salse) non è un franchise difficile da capire. Non ha bisogno di rivoluzioni copernicane, non necessita di stravolgimenti identitari a ogni iterazione. L’equazione che lo ha reso grande è lineare: avventura, enigmi ambientali, sparatorie calibrate, scenari esotici e un mix sapiente di tensione e meraviglia.
Lara non c'è
Shadow of the Tomb Raider aveva chiuso un cerchio narrativo, mostrandoci una Lara finalmente sicura, letale, a proprio agio con il destino che per anni aveva cercato di respingere. Il passo logico sarebbe stato lanciarla subito in una nuova trilogia, spingendo sull’esplorazione verticale, su ambienti più dinamici, su enigmi ancora più ingegnosi.
Invece, dal 2018, il silenzio. Certo, il passaggio di proprietà da Square Enix a Embracer Group nel 2022 ha complicato i piani. Molti progetti saranno stati cancellati, ristrutturati, ridiscussi; nuove strategie avranno richiesto tempo per prendere forma.
Sappiamo che Crystal Dynamics è rimasta al timone, che Amazon Games sarà il publisher, e che il prossimo episodio sarà un single player multipiattaforma con l’usuale formula narrativa.
Ma oltre a questo, il nulla: nessun teaser, nessuna finestra di lancio, nessun indizio che faccia sentire i fan parte del percorso creativo.
Il paradosso è che, mentre tutto tace, Lara continua a essere spremuta come icona ovunque tranne che nel suo habitat naturale. Un po’ come se, dopo sette anni di assenza, Indiana Jones tornasse al cinema solo come comparsa in un film dove lui non è protagonista.
Il problema non è soltanto la mancanza di un videogioco, ma l’assenza di un racconto. Ogni anno senza novità è un anno in cui il legame emotivo con il pubblico si assottiglia, e la percezione stessa di Tomb Raider come franchise vivo evapora.
A peggiorare la situazione c’è quella che potremmo definire “la paura da Crystal Dynamics”. Lo studio era impegnato anche sul reboot di Perfect Dark, di cui ormai abbiamo perso le speranze.
In un’industria dove persino colossi come Rockstar e Naughty Dog si prendono quasi dieci anni per lanciare un nuovo titolo, la pazienza è ormai diventata la norma. Ma c’è un dettaglio: la pazienza, senza comunicazione, non si traduce in hype ma in disillusione.
Eppure, la base per il ritorno c’è, ed è solida. La Survivor Trilogy ha modernizzato Lara senza snaturarla, restituendole spessore psicologico e credibilità narrativa. Shadow of the Tomb Raider vantava un level design tra i più raffinati della saga, con tombe intricate, puzzle ambientali stimolanti e momenti di autentico brivido.
Il finale apriva possibilità infinite, lasciando intendere che Lara fosse finalmente pronta a vivere l’avventura con consapevolezza piena. Ripartire da lì non sarebbe complicato: basterebbe avere il coraggio di non inseguire le tendenze del momento, ma di tornare a ciò che ha reso celebre la saga, ovvero l’avventura pura.
I tempi cambiano
E qui arriviamo al vero nodo, quello culturale più che tecnico. Non viviamo più in un’epoca in cui le software house si sentono obbligate a nutrire i propri franchise storici. Oggi, se un’IP non garantisce flussi costanti di introiti, viene ibernata finché non emerge un piano di sfruttamento considerato abbastanza redditizio.
Tomb Raider è passata dall’essere una punta di diamante a un brand di merchandising, ridotto a icona buona per vendere skin e figurare nelle collaborazioni più improbabili. Per un personaggio che ha insegnato a un’intera generazione cosa significhi esplorare, questa è una forma di svilimento.
E qui si apre un discorso più ampio. L’industria dei videogiochi sembra aver dimenticato cosa significhi custodire i propri miti fondanti. Lara Croft non è un personaggio qualsiasi: è stata la prima eroina a imporsi nel mainstream, capace di conquistare copertine, spot televisivi, addirittura film hollywoodiani in un’epoca in cui i videogiochi erano ancora visti come un passatempo di nicchia.
Ridurla a cameo è come usare Mario per sponsorizzare un’app di fitness senza mai rilasciare un nuovo platform. Non è solo un errore strategico: è una mancanza di rispetto verso la memoria collettiva dei giocatori.
Ci si potrebbe chiedere se davvero ci sia ancora fame di Tomb Raider. La risposta, a mio avviso, è sì, ma a condizione che il ritorno sia sincero. Non basta aggiornare il comparto tecnico, non basta inseguire le mode del momento con open world infiniti e crafting compulsivo.
Lara deve tornare a fare ciò che sa fare meglio: immergere il giocatore in avventure dense, in cui ogni passo tra rovine dimenticate e tombe ancestrali restituisca quella sensazione di scoperta che ha reso la saga unica.
Il rischio, se si continua a tergiversare, è che quando arriverà il nuovo capitolo non ci sarà più quell’attesa febbrile che un tempo accompagnava ogni annuncio. Perché l’attesa ha bisogno di essere alimentata da un racconto, da una comunicazione che mantenga vivo il fuoco della passione.
Oggi, invece, regna il vuoto. Ogni mese che passa senza uno straccio di trailer o concept ufficiale erode quella connessione emotiva che, una volta perduta, non è facile da ricostruire.
E così, mentre altre saghe storiche trovano il modo di rinascere – pensiamo a Resident Evil, a Metroid, persino a Prince of Persia – Lara rimane immobile, congelata in un presente eterno. Un personaggio che ha ridefinito il concetto stesso di protagonista femminile nel gaming, ridotta a logo da appiccicare su pacchetti promozionali.
Il prossimo capitolo arriverà, inevitabilmente. E magari sarà un successo tecnico, magari venderà milioni di copie, magari convincerà persino i critici più scettici. Ma quello che nessun budget miliardario può comprare è la fiducia persa, quel senso di avventura imminente che un tempo faceva tremare le mani all’idea di impugnare di nuovo le pistole gemelle di Lara. Perché il marketing può generare hype artificiale, ma non può ricreare l’attesa genuina, la febbre dell’esplorazione che ha accompagnato i momenti più alti della saga.
E allora la domanda che resta, dopo sette anni di silenzio, è semplice: cosa vuole davvero essere Tomb Raider nel 2025? Un brand svuotato, pronto solo a comparire dove serve fare numeri rapidi?
O un franchise capace ancora di incarnare lo spirito dell’avventura videoludica, di spingersi oltre i confini del conosciuto e restituire ai giocatori quella scintilla che oggi sembra smarrita?
La risposta non sta in un business plan, ma nel coraggio di ricordarsi cosa significava, una volta, chiamarsi Lara Croft.