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I ban permanenti di Blizzard e Ubisoft

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Avatar di Domenico Musicò

a cura di Domenico Musicò

Editor

Pubblicato il 11/06/2016 alle 00:00

Indipendentemente dai gusti personali e dalla preferenza di chi vorrebbe solo giochi single player senza funzionalità online, i titoli multiplayer sono ormai una realtà ben consolidata e in continua espansione. Stabilitisi come diretta conseguenza dei tempi ormai definitivamente cambiati insieme all’utenza, i giochi esclusivamente online hanno sempre più bisogno di un sostegno forte, deciso e autoritario, e devono saper preservare con grande serietà la propria community. Con Overwatch, Blizzard sta indicando una direzione ben precisa, una strada che dovrebbe mettere d’accordo tutti e far la felicità di chi ha a cuore la correttezza; eppure c’è ancora chi afferma di avere il pieno diritto di fare come meglio crede e di poter anche barare, se lo desidera, e questo solo perché legittimato dalla spesa per l’acquisto del prodotto. Si tratta dunque di una pretesa condivisibile o il pugno duro di Blizzard rappresenta finalmente un segnale che nessuna software house può più ignorare?
La legge della giungla
Qualche giorno fa abbiamo riportato una news dove veniva testimoniato quanto severi fossero i ban verso i cheater di Overwatch. Un giocatore, evidentemente non pago delle sue malefatte e intestardito ad avere la meglio, ha acquistato il gioco per ben quattro volte: non c’è stato modo, per lui, di tornare a fare un’altra partita, nemmeno tentando un aggiramento dei sistemi di sicurezza di Blizzard, rivelatisi in ultima istanza inespugnabili. Mentre cerchiamo di capire se in effetti i ban saranno permanenti per chiunque voglia barare o se sono solo misure di sicurezza estreme per chi si spinge davvero oltre (come ha provato a fare questo utente), non possiamo fare a meno di ammirare questa linea autoritaria e severa, che dovrebbe essere presa come esempio da chiunque abbia a cuore la propria opera e la community che la popola. Non si tratta infatti solo della più cristallina forma di rispetto verso chi acquista e supporta un prodotto, ma anche di misure necessarie per mantenerlo sempre in salute, evitando pertanto emorragie di utenza che già nel medio periodo possono davvero sancire la fine di un gioco.
A tutti quei giocatori che mirano alla competitività, anche e soprattutto al di fuori degli e-sport, non possono mai mancare le dovute garanzie affinché i loro sforzi e la loro totale dedizione non vengano umiliati quotidianamente da chi – per manifesta incapacità o gusto grottesco nel rovinare il divertimento altrui – utilizza un gioco solo per affermare un predominio che in condizioni ottimali non riuscirebbe ad avere. Non vogliamo in questo articolo condurre una sorta di ricerca sociologica sulle motivazioni che spingono dei ragazzi ad agire in questo modo, ma non servono di certo delle menti superiori per capire che i meccanismi che scattano sono in fondo i medesimi della vita reale, dove sono in molti a cercare delle scappatoie o dei mezzucci da vigliacchi per prevalere sul prossimo.
Con la proliferazione dei cheater e dei metodi per ottenere scorrettamente dei vantaggi a discapito degli altri, si uccide dunque un’intera community, ed esiste una lista francamente lunghissima di giochi abbandonati prematuramente proprio per la loro insopportabile presenza e la noncuranza degli studi di sviluppo. Qualcosa, però, sta davvero cominciando a cambiare: anche Ubisoft, col suo Rainbow Six: Siege, sta agendo esattamente come Blizzard, ossia usando con serietà e precisione i ban permanenti. Siamo insomma davanti a un vero punto di svolta.
Cane mangia cane
Giusto per fare un esempio, condivido con voi la mia esperienza su Metal Gear Online 2, su cui ho passato tre anni della mia vita con l’occhio sempre rivolto alle classifiche e la propensione per il massimo della competitività, anche grazie a un clan che me lo ha permesso. Dopo il primo anno di idillio, qualcosa iniziò pericolosamente a cambiare in peggio: si affacciarono le prime pratiche di “lagswich” e “MAOlag”, che in pochi mesi si allargarono a macchia d’olio fino a infettare, nel periodo finale, il 90% della community. Tutti scapparono a gambe levate: il numero di giocatori attivi divenne davvero trascurabile, la quantità di lamentele divenne rapidamente ingestibile e i server vennero chiusi per sempre, con buona pace di chi ancora chiede a gran voce un impossibile ritorno di quell’incredibile competitivo a squadre. In sostanza, mi sono reso conto di aver sprecato quel tempo perché all’epoca un ban permanente era considerato una misura un po’ troppo esagerata. Esistevano, sia ben chiaro, ma non c’era la tecnologia – o la voglia – per contenere in modo severo e perentorio simili atti d’ingiustificata prepotenza e prevaricazione. A questo punto, chiunque di voi potrebbe scrivere nei commenti qui sotto una delle proprie esperienze coi cheater, e sono convinto del fatto che alcuni se la sono passata anche molto peggio di me. In fondo, si tratta di un problema che accomuna tutti coloro che un gioco vogliono goderselo appieno e il più possibile, dopo aver speso parte dei propri risparmi. Si apre però a questo punto un altro interrogativo non meno importante, legato proprio alle modalità di fruizione del prodotto: molti cheater reclamano il diritto di poter fare ciò che vogliono perché in fin dei conti quel gioco lo hanno comprato esattamente come i giocatori corretti. Addirittura, addossano la colpa agli sviluppatori, che in qualche modo “permettono” al gioco di essere facilmente bucato. Tra questi, ci sono anche i finti paladini, ossia coloro che dichiarano di volere il bene di quel determinato titolo poiché è proprio grazie ad alcuni bug, glitch o exploit messi finalmente a nudo che possono aiutare i programmatori a farli sparire per sempre. Credo francamente che quest’ultima sia una giustificazione puerile che vorrebbe sfruttare una motivazione che di nobile ha solo la facciata e non l’intento ultimo, perché se dovessimo mettere sui piatti della bilancia gli effettivi vantaggi e i danni arrecati, questi ultimi avrebbero senz’altro un peso maggiore. La critica diventa ancora più feroce, ovviamente, quando si usano addirittura ammennicoli esterni costruiti ad hoc o software opportunamente modificati.
Il ban permanente è in fondo il modo più efficace per scoraggiare le pratiche illecite, far crescere il mercato dei titoli online only, tutelare l’utenza, garantire un supporto duraturo e mantenere l’ordine all’interno di mondi virtuali – quelli sì – dove la naturale scrematura avviene esclusivamente tramite fattori legati alle abilità e alla meritocrazia.

E voi, da che parte state? I cheater, avendo acquistato il gioco come tutti gli altri utenti, hanno il diritto di ritornare a giocare dopo una giusta punizione o vanno banditi per sempre? Come dovrebbero porsi gli utenti corretti nei loro confronti? Gli sviluppatori devono seguire questa linea di severità e intransigenza per preservare community e prodotti, oppure esistono altri metodi meno severi ma ugualmente efficaci? Diteci la vostra.

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