La grafica nei videogiochi conta davvero? Una domanda che ritorna ciclicamente, come un ritornello che non vuole saperne di lasciare la nostra timeline. Ogni volta che un titolo attesissimo mostra il primo trailer, ogni volta che un’ombra appare più sgranata del previsto o un riflesso sembra uscito dal 2010, ecco che il popolo del web si divide.
Da una parte i puristi della sostanza, pronti a ricordarci che il videogioco è, prima di tutto, gameplay. Dall’altra, i paladini del fotorealismo, convinti che nel 2025 non si possa più tollerare una texture che sembri disegnata con la matita HB.
Nel mezzo, una verità che spesso sfugge: la grafica è importante, ma non nel modo in cui la maggior parte delle persone crede.
E il caso di Leggende Pokémon Z-A (qui la recensione) lo dimostra meglio di qualsiasi saggio accademico.
Sostanza o apparenza?
Quando The Pokémon Company ha rilasciato il nuovo Leggende, l’internet è letteralmente esploso. Non per l’entusiasmo, ma per la delusione. In pochi minuti, l’hashtag #PokemonZA è diventato un campo di battaglia digitale, e i meme sui “balconi bidimensionali” hanno invaso X e Reddit come un’infestazione di Paras.
«Sembra un gioco per PS2», «Nel 2025 e ancora così?», «Nintendo deve vergognarsi!» – commenti che abbiamo letto, riletto e che, se fossimo onesti, abbiamo pensato anche noi, almeno per un istante. Ma poi, a mente fredda, la domanda è inevitabile: davvero vogliamo giudicare un videogioco dalla risoluzione dei suoi balconi?
Il dibattito non è nuovo, ma assume oggi una nuova intensità perché viviamo nell’epoca dell’apparenza. Ogni trailer è un biglietto da visita, ogni screenshot un’arma di marketing. L’occhio, prima ancora della mente, decide se qualcosa “vale”. Il problema è che nel mondo dei videogiochi, l’immagine non racconta mai tutto.
Un trailer non mostra il ritmo, la fisicità del movimento, la sensazione di scoprire un mondo nuovo. Mostra, semmai, una vetrina. E come tutte le vetrine, serve a vendere. Eppure, sembra che il pubblico, soprattutto quello social, confonda troppo spesso la vetrina con l’esperienza.
Prendiamo proprio Leggende Pokémon Z-A. La sua grafica è, in effetti, discutibile. Lo stile sembra un ibrido tra il minimalismo colorato di Arceus e un tentativo di modernità urbana che non si sposa del tutto con la direzione artistica. Ci sono elementi spogli, ombre che sembrano dimenticate in fase di rendering, e sì, quei balconi che paiono incollati sullo sfondo come figurine Panini. Ma basterà questo per decretare il fallimento di un intero gioco? Davvero la qualità artistica di un titolo si misura in poligoni al secondo?
È curioso notare come lo stesso fandom che oggi urla allo scandalo fosse lo stesso che, nel 1996, giocava felice a Pokémon Rosso e Blu su uno schermo verdognolo da 2 pollici. Nessuno, allora, pretendeva il ray tracing. Nessuno gridava all’indecenza grafica. Si giocava perché c’era un’avventura, un mistero, un universo da esplorare.
Eppure, oggi, ogni passo di Game Freak viene scandagliato come se dovesse dimostrare qualcosa. Come se ogni pixel dovesse giustificare il prezzo del preordine. La grafica, in questo senso, è diventata un simbolo di fiducia. O meglio: di sfiducia.
La verità è che il pubblico non critica solo la grafica: critica ciò che essa rappresenta. Vedere un titolo del 2025 che sembra tecnicamente arretrato rispetto a uno del 2017 genera una dissonanza cognitiva. Non è tanto una questione estetica, quanto di percezione del valore. Spendere 70 euro per un prodotto che “sembra vecchio” è, per molti, un affronto. Ma ciò che sfugge è che la grafica, da sola, non è garanzia di nulla. Se fosse così, Forspoken sarebbe un capolavoro e Minecraft un fallimento. E invece sappiamo tutti com’è andata.
Il problema, forse, è che confondiamo “grafica” con “direzione artistica”. Sono due cose profondamente diverse. La prima è una questione di tecnologia: shader, poligoni, risoluzione, illuminazione globale. La seconda è visione, estetica, coerenza. Breath of the Wild non ha mai puntato al fotorealismo, eppure rimane uno dei giochi più belli degli ultimi vent’anni.
Non per la potenza tecnica, ma per la capacità di far convivere minimalismo e poesia. Ogni albero, ogni montagna, ogni sfumatura è lì per una ragione precisa. La grafica serve a veicolare un’emozione, non a vincere una gara di pixel. E quando Game Freak sbaglia, non lo fa perché non sa programmare – lo fa perché sembra non sapere cosa vuole comunicare visivamente.
Il brand non ha mai vissuto di spettacolarità grafica: vive di mondo, di creature, di meccaniche che toccano la nostalgia collettiva. È una saga che appartiene alla memoria più che al futuro tecnologico. E tuttavia, la memoria non basta più. Non nel 2025, non quando l’industria si muove al ritmo di Unreal Engine 5 e IA.
Ciò che questo dibattito mette a nudo è un problema più grande: l’incapacità del pubblico (e, spesso, della critica) di distinguere la bellezza visiva dalla qualità esperienziale. Ci sono titoli che brillano perché tecnicamente perfetti, ma che lasciano il vuoto dentro. E ce ne sono altri che sembrano grezzi, quasi primitivi, ma che colpiscono l’anima.
Undertale, Papers, Please, Stardew Valley – sono tutti esempi di opere in cui la grafica è funzionale al messaggio, non un ostacolo. Nessuno di questi giochi avrebbe tratto beneficio da un restyling 4K. Perché la loro forza sta altrove: nel linguaggio ludico, non in quello estetico.
Il problema è che l’occhio moderno è viziato. Abituato a performance in 4K, HDR, ray tracing, e framerate ultrastabili, si dimentica che il videogioco è prima di tutto interazione. Siamo diventati spettatori prima ancora che giocatori. La grafica serve a intrattenerci nei primi dieci secondi, ma poi?
Dopo la meraviglia iniziale, rimane solo il gioco. E se il gioco non funziona, nessuna texture al mondo potrà salvarlo. È qui che Pokémon rischia di cadere: nel pensare che basti una formula familiare a sostenere tutto. Ma anche i nostalgici, a un certo punto, si stancano di guardare gli stessi alberi in bassa definizione.
La reazione a Z-A dice molto anche di noi. Dice che, forse, non siamo più capaci di guardare un gioco per ciò che è. Siamo prigionieri del primo impatto. Abbiamo sostituito la curiosità con il giudizio istantaneo, l’attesa con la delusione preventiva. È il riflesso di un’epoca che consuma tutto in pochi secondi, anche le emozioni.
Fumo o arrosto?
Eppure, basterebbe ricordare che i grandi classici non nascono per stupire gli occhi, ma per restare nel cuore. Chi oggi deride i “balconi bidimensionali” forse domani li rimpiangerà, se il mondo dei videogiochi dovesse davvero appiattirsi su un’estetica uniforme, lucida e senz’anima.
Non significa che la grafica non conti. Contare, conta eccome. Ma deve contare per le ragioni giuste. Deve essere il linguaggio attraverso cui il gioco parla, non la sua maschera. Se domani Game Freak riuscisse a trovare un’identità visiva coerente con la propria poetica, non servirebbero milioni di poligoni per convincerci. Basterebbe una visione.
E questa, purtroppo, è la cosa che oggi manca di più nell’industria: la coerenza. Tutti inseguono l’effetto wow, pochi inseguono un’estetica significativa. È per questo che un titolo tecnicamente perfetto come The Order: 1886 è stato dimenticato, mentre un pixel game come Celeste è diventato un’icona emotiva.
Alla fine, la grafica conta nella misura in cui amplifica un’intenzione. Se l’intenzione è confusa, la grafica lo sarà altrettanto. E se l’intenzione è limpida, anche un disegno scarno può emozionare. Leggende Pokémon Z-A è diventato, suo malgrado, un simbolo di questa frattura culturale: tra chi cerca il senso e chi cerca lo splendore, tra chi vuole giocare e chi vuole guardare. Forse è giusto che esistano entrambe le scuole di pensiero.
Ma la prossima volta che vedremo un balcone piatto in un trailer, forse dovremmo chiederci: è davvero la grafica il problema, o siamo noi a non saper più vedere oltre l’immagine?
Perché la grafica, nel videogioco, non è mai fine a sé stessa. È un mezzo. E quando il mezzo diventa il messaggio, qualcosa si rompe. Non nel codice, ma nel rapporto tra giocatore e gioco. Ed è lì, tra un poligono e una scintilla di emozione, che si decide se un titolo sarà ricordato o dimenticato. Leggende Pokémon Z-A potrà anche avere i balconi bidimensionali, ma se riuscirà a farci sentire di nuovo come nel 1996, quando tutto sembrava nuovo e magico, allora sì, la grafica non conterà davvero più nulla. E forse è proprio questo il punto.