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Dovremmo preoccuparci dell’open world in Shenmue III?

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Avatar di Parzival

a cura di Parzival

Pubblicato il 26/09/2017 alle 00:00

Dal 1999 sono passati meno di vent’anni, ma videoludicamente sembrano trascorse ere. Tra gli echi di un passato non troppo dissimile, invero, dall’attuale situazione del mercato – con Sony che ha dominato grazie alla sua PlayStation 2 un’intera generazione – affondava il progetto del Dreamcast di SEGA, e con esso anche alcuni dei videogiochi più innovativi ed apprezzati di sempre. A provocare la precoce dipartita di Dreamcast fu più la fallimentare eredità di Saturn che lo strapotere di PlayStation, ma questa è un’altra storia. Tra quelle produzioni che contraddistinsero la macchina dei sogni di SEGA, oltre a Jet Set Radio, Skies of Arcadia, Power Stone e molte altre ancora, troviamo i primi due capitoli di Shenmue, una saga firmata da Yu Suzuki e ancora oggi scolpita nel cuore di moltissimi videogiocatori.

La filosofia alla base del successo di Shenmue

Da Shenmue originava una filosofia completamente nuova nel creare giochi di ruolo. L’impronta tipica del genere veniva declinata in un’esperienza in cui la narrazione, il gameplay e la grafica (che per l’epoca risultava sbalorditiva) contribuivano a immergere il giocatore in un sistema a cui Yu Suzuki diede il nome FREE (Full Reactive Eyes Entertainment). L’obiettivo era far immedesimare il giocatore con Ryo facendogli vivere anche le sue routine. Nel gioco vennero implementati il ciclo giorno notte con tempo variabile e diverse condizioni climatiche, oltre a un discreto numero di personaggi non giocanti che avevano propri impegni nella vita virtuale. Ryo deve indagare sulle misteriose circostanze che hanno portato all’assassinio di suo padre, scoprire chi sia Lan-Di e per quale motivo brami gli specchi a tal punto da uccidere per impossessarsene. Al giocatore viene lasciata un’enorme libertà di approccio sia nei modi sia nei tempi con cui risolvere la faccenda, e oggi in molti affermano, in virtù di queste libertà, che Shenmue sia uno dei titoli ad aver maggiormente contribuito a creare il concetto di open world.

Open World e Sandbox non sono sinonimi

L’Open World è un concetto che spesso viene equivocato. Erroneamente ritenuto un genere videoludico, il termine sembra essere per molti un sinonimo di free roaming e di sandbox. Niente di più sbagliato. Se il free roaming può essere visto come condizione necessaria di una struttura sandbox e del concetto di open world, un gioco può essere sandbox senza essere necessariamente open world e viceversa. Con sandbox infatti si indentifica la possibilità in capo al giocatore di modificare elementi di gioco liberamente, anche lo stesso mondo di gioco (si pensi a titoli come Minecraft o Terraria) mentre il concetto di open world identifica un’esperienza in cui il giocatore può muoversi liberamente all’interno del mondo virtuale e scegliere come e quando affrontare sfide, missioni, obiettivi. È innegabile, dunque, che Shenmue sia stato uno dei primi videogiochi, insieme a GTA 3 anche, a scrivere l’alfabeto con cui ancora oggi vengono sviluppati gli open world.
Curioso che in relazione allo sviluppo del terzo capitolo di questa saga, di cui è stata annunciata in pompa magna una delle campagne Kickstarter più mediaticamente spinte nella storia dei videogiochi durante l’E3 del 2015, proprio Suzuki abbia di recente dichiarato che senza la partnership tra Ys Net e il publisher Deep Silver sarebbe stato impossibile garantire una struttura open world in Shenmue III. Le aspettative, a questo punto, si alzano notevolmente. Allo stesso modo si alza lo scetticismo in rete da parte dei fan che attendono da oltre 15 anni l’arrivo di questo gioco. Scetticismo dovuto al fatto che il concetto di open world è mutato notevolmente negli ultimi anni, tanto da risultare quasi repellente per molti giocatori. Ciò che troppo spesso non viene tenuto in considerazione però è il costo esorbitante delle attuali produzioni videoludiche, che ha portato inevitabilmente a un approccio più quantitativo che qualitativo. 

Mondi aperti: odi et amo

Quando si parla di open world la mente di molti viaggia dritto ai punti panoramici da cui sbloccare un’infinità di superflue missioni secondarie su mappe sconfinate create ad hoc come riempitivo per aumentare il numero totale di ore, peculiarità che ha contraddistinto diverse produzioni Ubisoft. La software house francese ha pagato in prima persona le conseguenze di questo approccio con un calo di vendite notevole in quello che era ormai diventato il suo franchise di punta e, dalla scorsa generazione, anche un po’ il paradigma di open world: Assassin’s Creed. Dopo un paio di capitoli narrativamente poco incisivi ma pieni di attività collaterali da svolgere, sembra che con Origins il binario narrativo sia tornato centrale nella produzione, che conterà probabilmente sempre tantissime attività secondarie, forse più attinenti a un disegno unitario che porti il giocatore dal tutorial ai titoli di coda, soddisfacendolo. Di tentativi che hanno creato una situazione peggiorativa ce ne sono diversi anche nel passato recente non solo di Ubisoft, basti pensare a Fallout 4. Ma ci sono anche tanti tentativi ben riusciti, da The Witcher III al più recente The Legend of Zelda: Breath of the Wild, al recentissimo Destiny 2.
L’open world in sé non è un problema, né tantomeno una soluzione. L’open world è un concetto che se applicato con coerenza a ogni genere di gioco (la serie Forza Horizon è un open world pur essendo un gioco automobilistico) ma soprattutto alle sue dinamiche narrative e di gameplay, può rappresentare un notevole valore aggiunto rispetto a un’esperienza più classica e lineare. Non che il tempo della linearità sia finito, altrimenti la saga di Uncharted non avrebbe riscosso il successo che ha meritatamente ottenuto. L’importante è cercare di non perdere di vista la qualità della produzione in virtù della quantità di contenuti, relazionandosi con il budget a disposizione. Se questo non copre i costi preventivati, è meglio sacrificare la quantità piuttosto che la qualità, ed è proprio per questo motivo, forse, che Suzuki ha tentennato più volte sulla questione open world. Il fatto che ora lo ufficializzi grazie alla partnership con Deep Silver rappresenta, dunque, un fattore estremamente positivo: un publisher con le spalle grosse potrà coprire con un budget più ampio le spese per creare uno Shenmue III vasto, vivo e pulsante, senza però rinunciare alla qualità complessiva del gioco. 

Ciò che rendeva unico e speciale Shenmue non era la sola possibilità di vagare liberamente per le strade di Yokosuka o di Hong Kong, era il poterlo fare sotto il sole, la pioggia, la neve, di giorno e di notte, soffermandosi a parlare con PNG intenti a svolgere quotidianamente le proprie attività con riferimenti culturali fortemente permeati di tutta la tradizione orientale di Giappone e Cina. Tutta questa struttura si integrava perfettamente anche con un sistema di combattimento che ricalcava quello di Virtua Fighter, e che oggi rappresenta forse la sfida più grande che Ys Net dovrà affrontare per attualizzare la produzione che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno. Ciò che rendeva unico e speciale Shenmue era la visione precisa di un racconto, e la volontà di narrarlo nel modo migliore possibile. Se lo spirito di Yu Suzuki e del suo team è rimasto invariato, non ci sarà da temere per la riuscita del progetto, né tantomeno per l’implementazione dell’open world al suo interno.

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