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Dov'è la libertà sessuale nei videogiochi?

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Avatar di Domenico Musicò

a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Pubblicato il 30/06/2016 alle 00:00

Robert Yang è certamente un personaggio provocatorio e diretto, che comunica le sue idee senza troppi giri di parole. I suoi giochi lo rappresentano al meglio, riflettono la sua idea del sesso e della sessualità sfaccettata, libera, spontanea, goffa, incasinata, strana, anche imbarazzante e complicata, ma certamente sincera, spogliata da quell’aura di perfezione artificiosa che ha da sempre mal espresso un atto così istintivo e primordiale. Yang trova ridicola la pudicizia dell’industria dei videogiochi e crede che ci sia un enorme problema legato non tanto allo sdoganamento del sesso, quanto alla sua raffigurazione, ritenuta dallo sviluppatore sin troppo bigotta e puritana.
Golden Cobra
Robert Yang lamenta una reale difficoltà a proporre al pubblico le proprie opere, poiché queste vengono puntualmente rigettate da policy spesso poco chiare, fumose, che si tengono ben lontane dal tracciare una linea netta tra divieto e permesso. Si potrebbe parlare di buon senso, di “certi limiti” che non andrebbero superati, ma fin quando i contorni dell’interdizione restano labili – o semplicemente valicabili quando conviene e insormontabili quando non c’è di mezzo una grande compagnia – non ci saranno mai degli effettivi progressi in questo senso. La libertà di Yang e la rappresentazione “particolare” della sessualità e delle sue forme passano attraverso delle opere sperimentali che ai più potrebbero apparire molto strane, mentre sembrano essere assolutamente nella norma per l’autore, il quale è chiaramente uno spirito libero che accetta malvolentieri le limitazioni che l’industria impone a qualunque tipo di deriva erotica che non sia moderata e in definitiva sin troppo controllata. Yang non ne fa però un problema personale, ma anzi lo estende al di là della propria concezione, puntando il dito contro un’industria che vorrebbe essere il punto di riferimento e la nuova avanguardia dell’intrattenimento, ma che è ancora vittima della propria evidente immaturità. 
Il suo consiglio è quello di pensare al sesso come a un insieme di esperienze variegate, anziché correlarlo all’imperante visione pornografica che si è progressivamente instillata nelle nuove generazioni. Il senso ultimo di tutto ciò non va ricercato in quel complesso ventaglio di attitudini comportamentali che varia da persona a persona; va al contrario valutato prendendo in analisi le sperimentazioni di Yang, legate a pratiche BDSM, autoerotismo ed esplorazione della sessualità al di fuori della sua canonica accezione. 
Hurt me Plenty è apparentemente solo un giochino sullo spanking, ma in realtà sta bene attento a mantenere la distanza tra il dolore accettato poiché consensuale e il prevaricamento che sfocia in abuso. “L’abuso non è solo fisico“, spiega Yang, ed è infatti importante che ci sia sempre una fase di negoziazione, una in cui si agisce e una successiva dove ci si prende in qualche modo cura dell’altro.
In Cobra Club potrete personalizzare il vostro pene, fotografarlo e mandare in giro le immagini della vostra intimità; Yang spiega che “Se i selfie hanno l’ardire di immortalare facce degne di essere ricordate, allora anche tutti i peni meritano la stessa considerazione”. Al di là di questa dichiarazione, viene in realtà mostrato come parte dell’universo maschile si senta orgogliosa e sexy ad agire in questo modo. 
In Stick Shift si deve invece dare piacere alla propria auto usando la leva del cambio in modo “creativo”; l’autore bypassa dunque ogni tipo di controversia sulla nudità umana ma senza perdere nulla in termini di spregiudicatezza nella rappresentazione della più comune tra le pratiche sessuali.
Questa carrellata di giochi, gratuiti e forse tra i più rappresentativi dell’opera di Yang, deve servire solo per avere una panoramica sull’autore e sul personaggio, ma non a determinarne l’intento ultimo, che è appunto la liberazione del conformismo sessuale nei videogiochi.
Provocazioni e verità
Naturalmente le idee di Yang non sono esattamente proponibili in un ambiente popolare dove ancora si fa una fatica enorme ad accettare il medium e dove si ha un’idea completamente traviata delle sue potenzialità. Sono invece da prendere in considerazione da chi i giochi li sviluppa e li produce; da chi, in definitiva, può trovare gli strumenti e i metodi per nobilitarli. 
L’industria, spiega Yang, ha un grosso problema con la rappresentazione dei corpi e col modo in cui interagiscono. Ed è vero. Ricordo ancora distintamente l’esaltazione della critica specializzata quando titoli di grande richiamo mediatico mostravano le prime scene di sesso; esaltazione che, in verità, mi fa davvero una gran tenerezza, visto che in passato si è fatto di più in questo senso e da allora non ci si è mossi più di un millimetro. La “scena di sesso” è più una sorta di trofeo che viene vinto, un premio che viene sbloccato a un certo punto dell’avventura, un intermezzo che non è né piacevole né dignitoso per la sessualità. Quando Yang dice che il sesso non è qualcosa che sta lì ad attenderti, che non è un atto perfetto o una prestazione senza margini di errore, testimonia il vero e dà una dimensione precisa di ciò che in realtà è. Oltretutto, il sesso è qualcosa che nei videogiochi mainstream viene solo mostrato, ed è dunque piegato a un immobilismo che svilisce la caratteristica più di spicco del medium: l’interattività. Non si menzionino a tal proposito i QTE visti in God of War o in Fahrenheit, perché non è questo il modo in cui dovrebbe realmente funzionare la messa in scena e la fruibilità di simili tematiche. 
Il problema non è però solo questa radicata mancanza di coraggio nel rendere il sesso interattivo; Yang ne fa proprio una questione di disonestà verso l’utenza: “com’è possibile rispecchiarsi in personaggi che si esibiscono in pratiche inappuntabili e perfette?”. Nei videogiochi non ci sono false partenze, singhiozzi e stranezze che nella vita reale esistono eccome. E soprattutto, il sesso è sempre avulso dal gioco stesso, come se fosse una parentesi di cui vergognarsi o un contentino per far affermare a dei presunti critici che il videogioco ha finalmente raggiunto la propria maturità.

I videogiochi hanno degli enormi problemi con il sesso e con la sua rappresentazione. Al di là delle provocazioni di Robert Yang e dei suoi titoli, che sembrano più degli sfoghi personali che non i condottieri ideali per una vera battaglia a favore della dignità e della piena libertà sessuale in questo medium ancora molto acerbo, i suoi concetti di fondo mostrano una grande verità: il sesso non è rappresentato con sincerità e non aderisce mai alla realtà. Ma soprattutto, nel mercato mainstream ci sono ancora l’imbarazzo e la ritrosia che tarpano le ali a ogni reale ed efficace forma di interattività.

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