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Distopie videoludiche Parte 2

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a cura di Nick

Pubblicato il 06/07/2016 alle 00:00

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«La popolazione ottimale» disse ancora Mustafà Mond «è modellata come un iceberg; otto noni al di sotto della linea d’acqua, un nono sopra».
                                                                                                                                                               Aldous Huxley – Brave New World
L’ultima volta che ci siamo visti ho parlato di controllo, di scelte e dell’illusione di libertà (potete trovare lo speciale qui). Come promesso, oggi cercherò di dare uno sguardo a un altro elemento chiave delle distopie videoludiche, un elemento che mette in comunicazione il videogiocatore, il suo alter ego digitale e il mondo di gioco in cui si muove: la responsabilità. Quest’ultima, infatti, si posiziona in un punto nevralgico: da lei dipende il legame profondo che ci collega all’universo narrativo, ai suoi abitanti, e in ultima analisi, determina quanto realmente ci sentiamo partecipi delle vicende mostrate su schermo.
Ma prima di iniziare, un piccolo avvertimento: saranno presenti alcuni spoiler.
Harvest or rescue?
Il nostro punto di partenza ci riporta, per un attimo, a Rapture, la città subacquea costruita da Andrew Ryan e caduta nel baratro in cui la sua stessa grandezza l’ha spinta. Nello scorso speciale ci eravamo chiesti quanta libertà avesse il nostro protagonista, Jack, e per traslato noi stessi. Nonostante la risposta fosse del tutto negativa, nella prima parte dell’avventura venivamo posti di fronte ad una scelta entrata di diritto nella storia del videogioco. Dopo aver sconfitto il primo, terrificante Big Daddy, il nostro protagonista si ritrova a dover decidere la sorte di una Sorellina. La nostra scelta è semplice: o la risparmiamo, in cambio di quasi nulla (perlomeno nell’immediato), oppure la sacrifichiamo, ottenendo una cospicua quantità di punti esperienza. Ecco qui un primo modo, il più immediato, semplice e forte, per responsabilizzare il giocatore nei confronti del mondo di gioco: porlo di fronte ad una scelta. In questo caso, una scelta che prevede un esito egoista e uno altruista. Ciò che fai determina chi sei e l’atteggiamento degli altri personaggi nei tuoi confronti. Il messaggio degli sviluppatori è chiarissimo: comportati bene e verrai premiato, comportati male e verrai punito. Infatti, nel caso salvassimo tutte le Sorelline, verremo ricompensati con un finale positivo; in caso contrario ci aspetta un futuro di sangue e violenza senza fine.
Bioshock utilizza la strada della scelta per renderci più partecipi del suo mondo, permettendo alle nostre azioni di plasmare gli eventi. Naturalmente non solo i videogiochi a tema distopico hanno optato per questa soluzione, ma è indubbio che questo genere di titoli, perennemente in bilico fra interessi personali e altruismo, sia uno dei più adatti al meccanismo della scelta. Ci basti pensare al mondo vittoriano di Dishonored, nel quale le nostre azioni, quando optiamo per la violenza e l’omicidio, si ripercuotono su Dunwall, aumentando il numero di ratti e la diffusione della peste fra i cittadini; o ancora una delle side quest più famose della storia dei gdr, The Power of the Atom di Fallout 3, dove perfino l’esistenza di un’intera città, Megaton, viene posta nelle nostre mani. 
Il dilemma morale, insomma, può aiutare il videogiocatore a immergersi nella storia e mostragli come le sue azioni abbiano una vera ripercussione sugli eventi. Ma fin da subito ci accorgiamo che questa soluzione nasconde un problema: il mondo non è fatto di soli bianco e nero. Ad azioni buone talvolta corrispondono risultati negativi e viceversa. Ma aspettate un attimo, tornerò più tardi su questo punto.
Gotta catch ’em all!
Nel frattempo spostiamoci ad un altro titolo che responsabilizza il giocatore, questa volta senza utilizzare il meccanismo della scelta: Beyond Good and Evil. In questo sottovalutato capolavoro di Ubisoft siamo messi nei panni di Jade, una fotoreporter che gestisce un orfanotrofio insieme allo zio adottivo Pey’j. Il mondo di gioco è Hillys, un pacifico pianeta minacciato dalla razza aliena dei DomZ e protetto da un governo centrale totalitario e dalle sue squadre militari: gli Alpha. Jade accetta di lavorare per l’IRIS, un’organizzazione rivoluzionaria che vuole fare chiarezza sugli Alpha, troppo potenti per non avere nulla da nascondere. Ma ciò che a noi più interessa in questa sede è un particolare che, forse, può sembrare marginale. Gli sviluppatori hanno voluto popolare i livelli liberamente esplorabili con una grande quantità di animali: a Jade è richiesto di fotografarne il più possibile. Quello che sembra, a prima vista, un semplice minigioco, nasconde qualcos’altro. Le lande di Hillys sono vive e vibranti e fermarsi a cercare lo scatto migliore, o la specie non ancora catalogata diventa ben presto una delle attività più divertenti e gratificanti. Se da un lato la nostra eroina deve investigare sulle losche attività degli Alpha, scovando prove fotografiche che possano aprire gli occhi agli abitanti di Hillys, dall’altro deve sapersi fermare e osservare il mondo naturale che la circonda. Attraverso l’obbiettivo della macchina fotografica, Beyond Good and Evil lega fra loro due elementi all’apparenza contrastanti: i nemici che dobbiamo combattere e il mondo che dobbiamo salvare. In altre parole: ciò contro cui lottiamo e ciò per cui lottiamo. Ogni volta che aggiungiamo una creatura alla nostra lista, sappiamo che il suo destino dipende da noi; ogni scatto rende la missione di Jade sempre più nostra e personale. Beyond Good and Evil non utilizza nessuna scelta morale, nessun dilemma etico, eppure ci responsabilizza attraverso la costruzione di un universo animato e verosimile, che viviamo non tanto come una scenografia sulla quale si muovono degli attori, ma come qualcosa di simile ad una vera e propria casa. 
Ciao! Ciao! Seguimi. Ok!
Un approccio per certi versi simile venne tentato, sei anni prima, dai ragazzi di Oddworld Inhabitants, con il loro capolavoro Abe’s Oddysee. Questo platform ci racconta la storia di Abe e del suo popolo: i mudkon. Queste creature, pacifiche e remissive per natura, sono sfruttate come lavoratori, o per meglio dire schiavi, nel Mattatoio Ernia. La storia inizia quando Abe, un lavoratore come gli altri, viene per caso a scoprire un terrificante piano aziendale: la prossima carne ad essere lavorata nello stabilimento sarà proprio quella dei mudkon, i quali da schiavi rischiano di diventare qualcosa di ancora peggiore: materie prime. Il compito di Abe sarà scappare dallo stabilimento cercando di salvare il maggior numero di suoi simili. Anche qui concentriamoci su un particolare che potrebbe passare inosservato: nel gioco possiamo parlare con gli altri mudkon. Certo, questa non è una novità, moltissimi videogiochi ci permettono di dialogare. Eppure Abe poteva farlo come raramente si era visto in un videogioco. Anche se le frasi a sua disposizione erano poche (ciao, seguimi, fermo! fare una puzzetta) e le risposte ancora meno (ciao, ok, una risatina) il rapporto con i nostri compagni era più vero di molte altre relazioni videoludiche. Utilizzare una forma di dialogo dinamico e mettere gli inermi mudkon completamente nelle nostre mani (come i più sadici ben ricordano) creava un legame fra noi e i nostri compagni che poche altre volte mi è capitato di provare, e che ricorda, con le dovute differenze, lo stringere l’incerta mano di Yorda in Ico. Aggiungiamo che, di tanto in tanto, un tabellone luminoso indicava il numero di lavoratori scappati, deceduti o ancora al lavoro nel mattatoio: ciò bastava a farci comprendere con chiarezza che era tutto merito, o colpa nostra.
Glory to Arstotzka!
Terminiamo il nostro viaggio nelle terre cupe e inospitali di Arstotzka. In questa nazione fittizia di stampo sovietico siamo chiamati a impersonare un ispettore di frontiera addetto al controllo immigrazione. Il nostro compito è quello di controllare metodicamente passaporti, carte di identità, fototessere e permessi di lavoro, alla ricerca di qualsiasi tipo di irregolarità, dovendo noi decidere chi può passare la frontiera e chi no. Papers, Please è (letteralmente) un simulatore di burocrazia. Passiamo il tempo a leggere date, osservare timbri sospetti e scrutare facce tristi. Il campionario di persone con cui abbiamo a che fare è composto di poveracci, prostitute, contrabbandieri, in alcuni casi alti generali e persino cospiratori rivoluzionari. Durante lo svolgimento del gioco, ci troviamo a fare i conti con gravi problemi economici: viviamo in una casa piccola, dobbiamo mantenere la nostra famiglia e neppure abbiamo i soldi per comprare un regalo di compleanno a nostro figlio. La scelta che ci viene proposta è la seguente: essere ligi alle regole, guadagnando una miseria, oppure farsi corrompere, mettendo da parte qualche soldo, ma rischiando conseguenze anche gravi per noi e la nostra famiglia. 
Il meccanismo utilizzato da Lucas Pope, autore del titolo, per renderci responsabili delle nostre azioni, è quello già visto della scelta, ma Papers, Please propone qualcosa che solo di rado troviamo nel mondo dei videogiochi; nonostante le possibilità siano fondamentalmente due (il gameplay infatti si può riassumere nel mettere o non mettere un timbro), capire quale decisione sia quella giusta è tutt’altro che semplice. Da una parte abbiamo i problemi economici della nostra famiglia, dall’altra lo stato, minaccioso e oppressivo, e l’organizzazione rivoluzionaria, di cui sappiamo poco oltre al fatto che non disdegna l’uso della violenza e del terrore. Non mancano, infine, le innumerevoli storie personali, tratteggiate sempre con incredibile realismo. Il titolo, più che essere una simulazione di burocrazia, diventa la simulazione di una vita difficile, alle prese con la povertà, la violenza istituzionale, la mancanza di valori a cui aggrapparsi o di amici di cui fidarsi. Le persone che incontriamo vanno a formare una costellazione di individui imbruttiti, privi di dignità e schiacciati dalla dittatura. Noi non siamo diversi, anche noi privi di speranze e disposti a tutto pur di proteggere coloro che amiamo. Papers, Please ci pone di fronte a una realtà di grigi, in cui distinguere il bene dal male è un’operazione complicata, se non impossibile: con una lucidità dalla rara forza espressiva ci mostra per quale motivo la responsabilità ci spaventa e per quale ragione pensare in termini di punizioni e ricompense non sempre funziona.
Perché, come disse una volta un anziano signore, “nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze”.
Desidero ringraziare Vincenzo Cascone e Alessio Arbustini per i preziosi consigli e Marco Rizzitano per l’aiuto con l’editing audio.

Quando in un videogioco siamo posti di fronte a una scelta, l’obiettivo degli sviluppatori è chiaro: responsabilizzarci nei confronti delle nostre azioni. Salvare gli altri o salvare noi stessi? Finale buono o finale cattivo? La moralità è di sicuro qualcosa di complicato e il videogioco fa del suo meglio per ricreare la complessità del reale. Ma pad alla mano, come nella vita, distinguere il giusto dallo sbagliato non è sempre possibile.

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