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Recensione

Rot Gut

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Avatar di Domenico Musicò

a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Pubblicato il 25/04/2014 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

5

Affari illegali, contrabbando, criminalità e proibizionismo: condizioni che rappresentavano l’assoluta normalità nell’America del primo dopoguerra, in quegli anni ruggenti dove l’espansione industriale si sarebbe poi accartocciata su se stessa durante la Grande Depressione. Il particolare periodo storico è legato indissolubilmente a quel fenomeno della malavita che ha visto proliferare le figure dei gangster, che hanno per lungo tempo sguazzato nel mercato nero fino a costruire una vera e propria fortuna attraverso la produzione clandestina di prodotti tassativamente vietati dal governo americano. In questo spaccato storico affascinante e ricco di spunti narrativi, prende vita Rot Gut, particolare action dallo stile retrò che pesca a piene mani dall’abbecedario del noir.

A history of violence
Il minimalismo di Rot Gut è anche il suo male maggiore. Considerando come avrebbe potuto svilupparsi la trama e quanto avrebbe potuto essere un po’ più profondo il sistema di gioco, è davvero un peccato constatare come la direzione artistica intrapresa tolga al titolo più di quanto effettivamente non sia in grado di donargli. C’è sicuramente uno stile ben preciso e a tratti ricercato in quella pixel art che strizza l’occhio alla preistoria dei videogames, e c’è anche un’attenzione ad alcuni dettagli che innalza di poco la valutazione globale del progetto; ciò che manca, tuttavia, è la determinazione per far sì che Rot Gut diventasse una piccola perla capace di offrire un’istantanea credibile di quell’epoca. Le mancanze, in questo senso, sono soprattutto narrative, perché nonostante sia evidente una certa incapacità di distaccarsi dai cliché più gettonati, l’ambientazione e la sua realizzazione funzionano incredibilmente bene. 
Tutto comincia da una strada desolata, di notte, quando un uomo si introduce all’interno di un bar completamente vuoto, dove decide di scolarsi una bottiglia di dubbia provenienza che lo porta alla morte immediata. Sopraggiunge un’auto dalla quale scendono due scagnozzi che caricano il cadavere nel portabagagli, portandolo via verso l’inceneritore nel quale sarà bruciato. Da dietro un isolato, con la sua sigaretta in bocca, viene fuori un agente con l’immancabile impermeabile, incaricato di scoprire cosa sta realmente accadendo e quali loschi motivi hanno spinto i malavitosi a far fuori quell’uomo. Sebbene l’incipit sia pressoché perfetto e aderisca fedelmente al modus operandi dei criminali dell’epoca, la storia perde ben presto di mordente, affacciandosi di tanto in tanto all’inizio di ogni capitolo quasi con malavoglia. In poco meno di mezz’ora avrete concluso la faccenda, affrontando appena due boss fight che potrete superare al primo tentativo senza troppi problemi. Potrete ricominciare da capo, ma non sarete realmente spinti a farlo per il semplice fatto che Rot Gut avrà già detto tutto a bocca socchiusa, come se fosse incerto sulle parole da scandire e sul messaggio da comunicare. Anche Al capone, sinceramente, avrebbe avuto qualcosa da ridire.
Bullet in the head
Rot Gut è tutto in bianco e nero, a eccezione del rosso che fa brillare la sigaretta del protagonista e delle parti del corpo dei nemici sfracellate dai nostri proiettili. C’è anche il giallo oro delle monete a spiccare all’interno di scenari smorti e immersi in un tempo ormai sin troppo remoto, e ci sono anche un paio di oggetti che hanno mantenuto i colori della modernità. Se non si tratta di una vera e propria novità stilistica, la trovata della discromia serve certamente ad accentuare la violenza degli omicidi che andremo a compiere lungo i livelli, strutturati non troppo diversamente dai platform bidimensionali più conosciuti. Tutto ciò che il gioco vi chiede di fare, è sbarazzarvi di un’organizzazione armata fino ai denti con l’ausilio di una pistola, un fucile a pompa e il classico mitra Thompson, simbolo inequivocabile dell’America dei gangster. Accompagnati da composizioni musicali tra il chiptune e i motivetti jazz degli anni ’20, col suono dei bossoli che toccano terra col loro cristallino tintinnio, passeremo dapprima attraverso un club popolato da mafiosi, giungeremo nei pressi di un porto buio e poco raccomandabile, e arriveremo infine verso una sorta di discarica di corpi in cui giacciono scheletri umani dimenticati da chissà quanto tempo. È una storia violenta e diretta, quella di Rot Gut, ma è mal sviluppata e sin troppo raffazzonata, prigioniera del corpo vecchio in cui si ritrova. Le intenzioni per tirare fuori dal cilindro un gioco interessante c’erano, ma trattandosi di un titolo che si configura come poco più di un giochino in Flash, è difficile riuscire a offrire più di quanto effettivamente si è in grado di dare al pubblico. Lo stile c’è, indubbiamente, ma a Rot Gut, purtroppo, manca tutto il resto.

– Musiche accattivanti

– Tutto il fascino dell’America degli anni ’20

– Divertente…

-… Ma eccessivamente breve

– Piuttosto piatto e senza varianti

– Contenutisticamente povero

5.0

Scegliere un’ambientazione e un periodo così particolari per un progetto minuscolo come quello ideato da Max Games, avrebbe potuto essere di fatto una buona occasione per svettare tra titoli indipendenti che tendono giocoforza a somigliarsi troppo l’un l’altro. Rot Gut, però, risulta essere sin troppo piatto e privo di variazioni al sistema di gioco; considerando l’esigua durata dell’avventura, dunque, si tratta di difetti gravi che vanno a inficiare pesantemente la valutazione finale.

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