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Recensione

Home is where One Starts...

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Avatar di Domenico Musicò

a cura di Domenico Musicò

Editor

Pubblicato il 14/05/2015 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

8

I luoghi di nascita, crescita e formazione primaria indicano inequivocabilmente chi siamo stati e quale tipo di persona siamo diventati. Rivivere col ricordo i momenti salienti dell’infanzia, ripercorrendo una strada assai sbiadita ma che mai potrà essere cancellata, non è solo un esercizio della memoria; è soprattutto un continuo riappropriarsi della propria identità, anche quando questa viene violata dalla negligenza e inadeguatezza genitoriale.
Home is Where One Starts… è una storia molto breve, quasi stringata. È uno spaccato dell’America rurale cara ad autori quali John Steinbeck, Alice Walker e Mark Twain, ma anche a cineasti come Terrence Malick e Terry Gilliam, che hanno tratteggiato luoghi di indiscutibile bellezza naturale in aperto contrasto con lo squallore degli ambienti familiari, quelli in cui erano sempre i più piccoli a pagare le conseguenze più umanamente catastrofiche.
Tutto ha inizio da qui
Non è un caso che anche stavolta la scelta sia caduta su una narrazione di tipo ambientale. Capolavori come Dear Esther e Gone Home hanno lasciato capire chiaramente quanto questo modo di raccontare sia tra i più efficaci e adeguati al medium, in particolare quando si devono trattare temi delicati che necessitano di alcuni equilibri che non sempre un certo tipo di scrittura sa come modulare. Quando è l’ambiente di gioco a comunicare più di intense e struggenti pagine da romanzo, lasciando al giocatore la libertà di approfondire ulteriormente una storia che non è mai troppo esplicita – ma a cui non manca mai un potere comunicativo immenso e di grande intensità – si compie un piccolo miracolo. 
In un’area di grandezza modesta, che raffigura una zona sperduta del sud degli Stati Uniti, il sole picchia sempre forte su campi sconfinati dove l’erbaccia è alta e gli enormi covoni di fieno fanno compagnia ad antichi relitti d’auto divorati dalla ruggine. Oltre un chilometrico steccato, solo una strada polverosa che sembra perdersi ben al di là del tramonto, mentre dal centro di un podere agricolo dismesso e trasandato sboccia la casa abbandonata della protagonista, insolente come un bocciolo malevolo foriero di sventure. È un’istantanea che raffigura abbandono e separazione, solitudine e distanza, la grande disperazione e la tacita richiesta di un aiuto che non può arrivare in alcun modo. 
La protagonista ritorna idealmente nel posto in cui è cresciuta e ricorda, passo dopo passo, i momenti clou della sua infanzia. Un’infanzia difficile, emotivamente complicata e vissuta in una casa dove l’amore ha smesso di esistere; un periodo cruciale nel percorso di un essere umano che non viene però sempre raccontato attraverso la voce della diretta interessata, ma che viene piuttosto lasciato intendere dal preciso posizionamento di oggetti lungo i luoghi chiave, che lasciano comunque spazio alle libere interpretazioni degli utenti. 
David Wehle – autore dell’opera – spiega di non aver voluto eccedere con l’interazione, perché “tutto diventa più credibile quando elimini il maggior numero di distrazioni interattive”. Parole, queste, usate anche da Robert Briscoe, creatore di Dear Esther. Ed è assolutamente vero: il minimalismo, talvolta, sa essere uno strumento molto potente.
Broken Home
È proprio per questo motivo che Home is Where One Starts… è stato realizzato con un gameplay asciutto e privo di fronzoli, nel quale bisogna solo camminare, zoomare e osservare da vicino un paio di oggetti mentre vengono ruotati a piacimento. È un sistema di gioco che è stato volutamente svuotato da blandi riempitivi, in modo tale da far concentrare l’utente su ciò che conta più di ogni altra cosa, ossia sull’esplorazione lenta, graduale e metodica dell’ambiente. Un ambiente dove sono chiare le conseguenze del divorzio e della sciatteria che ha colto uno dei genitori della protagonista. La casa è in preda al disordine totale, lercia, piena di bottiglie vuote e mozziconi di sigaretta spenti su ringhiere, mensole e persino bordi del letto. Il palmo amorevole della sicurezza è diventato la mano severa di un oppressore che sfoga i fallimenti della propria vita sulla figlia, alla quale non resta molto altro che trovare delle vie di fuga da un posto che ha perso per sempre il tepore dell’accoglienza. Come ha passato la fanciullezza quella piccola donna? In che modo sceglie di raccontarsi e cosa sarebbe accaduto se i suoi trascorsi fossero stati diversi? L’autore vuole che i giocatori siano alla costante ricerca di risposte che possono essere trovate solo all’interno del piccolo ambiente ricreato con Unity, un piccolo spazio di pace con un epicentro terremotato. Tecnicamente siamo su livelli modesti, ma tutto sommato è un tipo di gioco dove l’aspetto tecnico ha un ruolo talmente marginale che vi basterà sapere il necessario: Il motore grafico fa il suo dovere senza particolari guizzi né défaillance. Il cursore non sempre evidenzia alla perfezione le parti dello scenario con le quali è possibile interagire, e sebbene la situazione migliori sensibilmente abbandonando il pad e tornando alla tastiera, c’è la necessità di abituarsi un attimo all’agganciamento approssimativo degli oggetti. Non ci sono sottotitoli, nemmeno in inglese; dovrete quindi ascoltare con molta attenzione gli stralci di testi ottimamente recitati dalla moglie dell’autore. Potrebbe arrivare qualche traduzione amatoriale, ma nel momento in cui ho scoperto per intero la triste e toccante storia della ragazzina, e finito di scrivere questa recensione, non c’erano tracce di testi in sovrimpressione, né di indulgenza verso chi è stato sempre indifeso e abbandonato a se stesso.

– Narrativa ambientale intelligente e senza forzature

– Grande storia, con interazione volutamente limitata e testi ridotti all’osso

– Gameplay lento e minimalista, che funziona bene

– Nessun sottotitolo, nemmeno in inglese

– Interazioni non sempre precise

8.0

Home is Where One Starts… è una storia breve sulla speranza, l’infanzia violata e il profondo senso di solitudine provato da adulti e bambini. É anche una fotografia impietosa dell’america rurale e retriva, fatta di bellezze naturali e immote che si mescolano a situazioni familiari completamente allo sbando, dove nessuno può davvero aspettarsi una forma di redenzione, se non attraverso una speranza talmente lunga da portare via con sé la parte più bella della giovinezza.

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