L'orrore dilettevole: perché ci piacciono i videogiochi horror?

“Devi provare quel gioco, è meraviglioso: non sono più riuscito a dormire per una settimana quando ho visto il finale!”

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a cura di Stefania Sperandio

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La prima volta in vita mia in cui vidi un videogioco, mi spaventò a morte. Mi spaventò così tanto che, anche rientrata a casa, non riuscivo a prendere sonno perché mi erano rimaste impresse quelle chiazze di sangue pixelloso, quei mostri dai denti acuminati, quelle atmosfere tetre.

Il videogioco era Doom, io non avevo nemmeno quattro anni e stavo sbirciando lo schermo di mio cugino mentre giocava.

Avendo avuto questo primo approccio con il videogioco, che per fortuna trovò contenuti molto più affini alla mia età quando mi buttai di peso su Bubble Bobble, probabilmente non sorprende che io non sia, per una pura questione di gusti, una divoratrice di videogiochi horror.

Doom non voleva nemmeno fare paura – nel senso che non era quello l’intento principale dello sparatutto per eccellenza che tutti conosciamo – ma, ovviamente, messo di fronte a una bambina con un tipo di immaginazione, sensibilità e capacità di mescolare realtà e finzione tutto suo, sembrava la cosa più terrificante del mondo.

Eppure, ci sono milioni e milioni di persone che, tutti i giorni, spulciano tutti i media che ci portano in realtà-altre per vivere proprio queste sensazioni: l’orrore, l’inquietudine, quel senso di disagio che ti rimane addosso anche quando hai spento lo schermo. Lo abbiamo visto in questi giorni appena trascorsi, con Halloween: tantissimi sono andati a caccia di videogiochi horror per una sera da ricordare.

«Dovresti giocare questo gioco, te la faresti sotto» ti raccomanda uno. «È il gioco più spaventoso che abbia mai giocato, ho dovuto dormire con la luce accesa». O ancora: «per essere un gioco horror davvero bello, mi deve terrorizzare per giorni».

Perché? Quanto è soggettivo l’orrore che proviamo videogiocando? E che marcia in più ci concede il videogiocare?

Perché vogliamo spaventarci?

Quali sono i motivi per cui una larghissima fetta di pubblico, tra le tante emozioni che si possono veicolare con un'esperienza narrativa o ludica in genere, sceglie il terrore, la paura, l'ansia?

Il nostro Domenico Musicò, il guru redazionale e non solo in termini di cultura incentrata sull'orrore, vi ha parlato molte volte durante i nostri appuntamenti live delle sue visioni sul videogioco horror e su quanto sia bello e convincente, in qualche modo, farsi scuotere da cima a fondo da quello che questi giochi hanno da dire.

Ci sono diversi motivi, secondo gli studiosi, per cui amiamo dedicarci a romanzi, film e videogiochi che suscitino spavento e terrore. La psicologia evoluzionista, ad esempio, ritiene che l'orrore si appelli alle nostre paure primordiali – soprattutto se pensiamo a quanto siano diffuse le paure di infezioni o di essere mangiati da qualcosa, che sono alla base del genere zombie o di quello in cui titanici mostri sono pronti a fare di noi un sol boccone.

Come spiegava il dottor Christian Jarrett, neuroscienziato cognitivo, in un approfondimento online per la BBC:

«I film horror, essenzialmente, ci danno un modo sicuro di provare, mentalmente, come ci comporteremmo di fronte a dei pericoli primordiali. Curiosamente, più sono negative le emozioni che una persona dice di aver provato durante un'esperienza horror, più è probabile che dica che ama quel genere.

Una teoria sostiene che questo sia dovuto al fatto che queste persone, soprattutto quelle che sono affini alla ricerca di emozioni, provino piacere dalla sensazione di sollievo che si innesca dopo una forte paura».

Secondo la visione di Jarrett, insomma, l'innesco della paura risiederebbe in ragioni evolutive, mentre la tendenza a volerlo stimolare si potrebbe ricondurre a come il cervello e il corpo reagiscano quando uno spavento si allevia.

Il dottor Coltan Scrivner, del Department of Comparative Human Development dell'Università di Chicago specializzato proprio nei perché dell'amore per gli horror, pone un accento simile sulla questione, facendo notare come la passione per l'horror renda più preparati a pericoli reali, perché le persone imparano a misurarsi con un determinato tipo di emozioni.

Nelle parole dello studioso:

«Si tratta di imparare a prevedere il mondo che ti sta intorno. [...] Penso che le persone che guardano tanti horror stiano imparando a commisurarsi con l'incertezza, con la suspense, con l'ansia».

Proprio uno studio di Scrivner sostiene che gli appassionati del mondo horror siano in qualche modo più resilienti e che abbiano subito meno stress anche durante i momenti peggiori della pandemia da COVID-19, proprio perché più abituati – come in una sorta di addestramento virtuale – a gestire le emozioni negative, che hanno in qualche modo imparato a ludicizzare ed equilibrare.

Ha una interessante visione diversa, invece, il professor Malcolm Turvey, direttore del programma Film and Media Studies della Tufts University, secondo il quale ci sono molteplici motivi per cui ci piace misurarci con l'orrore.

Il primo, è che molti ammettono di avere «una bestia interiore» che trova soddisfazione nel vedere compiere cose che nella realtà non potrebbe mai fare. Secondo il professore, una parte di noi si diverte con i massacri che alcuni mostri perpetrano nelle opere horror perché «se potessimo, lo faremmo anche noi».

Lo studioso, tuttavia, sottolinea anche che tutti subiamo il fascino delle creature mostruose, ma anche dell'ignoto: rientra nel piacere dell'horror, secondo lui, anche la voglia di capire cosa stia succedendo nella mente del killer, il perché si stiano verificando i brutti eventi che stiamo vedendo, leggendo, giocando.

Come spiegato da Turvey:

«Una cosa che è parte delle narrative horror è il processo in cui le persone scoprono la natura del mostro – quali sono i suoi poteri, i suoi punti deboli, da dove è arrivato. Si potrebbe dire che è il processo di scoperta, quello che ci godiamo».

E, ovviamente, c'è sempre il fatto di provare emozioni che non hanno conseguenze e da cui possiamo allontanarci quando vogliamo: «quello che c'è di speciale nel vivere gli horror, è che puoi sentire certe forti emozioni senza soffrirne le conseguenze. Questo ti consente di godertele appieno e di concentrarti su quelle». 

E provare emozioni spaventose, manco a dirlo, ci permette anche di stringere legami, di avvicinarci, di ammettere paure e debolezze.

Secondo le opinioni di questi diversi studiosi, insomma, i motivi per cui ci si lascia affascinare dall'orrore – e più è spaventoso, più lo si adora – sono tra i più diversi: paure primordiali che si risvegliano, senso di comunione nel condividere lo spavento con qualcuno a cui ci si avvicina, fascino per comprendere la mente del mostro, sfogo dei demoni interiori, "allenamento" simulato alla gestione e familiarizzazione con emozioni normalmente sgradevoli.

Paure soggettive e realtà-altre

Alle voci dei diversi studiosi si somma anche un altro aspetto incontrovertibile: non tutti, in effetti, veniamo spaventati dalle stesse cose. Ho giocato Project Zero II: Crimson Butterfly con addosso un inquietante senso di non essere da sola mentre poi gironzolavo per i corridoi della mia casa, nella realtà, suggestionata, ma non ho mai avuto bisogno di "saltare fuori" dal gioco.

Cosa che, invece, mi è successa con Hellblade: Senua's Sacrifice, che nominalmente affronta un orrore tutto diverso: quello della mente. Ed è proprio a tu per tu con la mente che il gioco può fare spavento, in alcuni momenti che non spoilero ma in cui le immagini scompaiono e la claustrofobia data dal buio e dalla ricerca di una via d'uscita si fa forte. Così forte, da avermi richiesto di mettere il gioco in pausa per ricalibrare le emozioni.

In compenso, personalmente sono immune ai giochi con gli zombie. Gli zombie non fanno paura e non ricordo di essere mai stata spaventata da nessun Resident Evil del filone classico. Questo ci dice, insomma, che ciò che ci fa paura, sebbene faccia appello a sensazioni probabilmente comuni – come quelle spiegate dai teorici citati poc'anzi – è molto diverso da persona a persona. Rimane uguale la radice, una sorta di minimo comune denominatore, che sono i motivi per cui andiamo in cerca di quel tipo di esperienza.

Se ci pensiamo, sono concetti di cui a suo modo parlò anche Roger Caillois nel suo "Il gioco e gli uomini: la maschera e la vertigine" (Bompiani, 2a edizione 7 dicembre 2000, Milano). Nelle sue teorizzazioni, lo studioso identificava diverse forme di gioco e, tra queste, c'era anche quella definitiva come ilinix. Secondo Callois, si trattava del gioco come «vertigine», ossia come ricerca di sensazioni che si provassero perché sottoposti a forza esterne, non controllabili, capaci di alterare in qualche modo il nostro stato emotivo.

L'esempio più semplice è quello dato da una giostra, da un ottovolante, da un salto con un paracadute perché si praticano sport estremi: il porsi su un limite considerato spaventoso e, semplicemente, saltare. Potremmo tradurlo con il volersi sottoporre volontariamente a un'esperienza spaventosa, anche nel genere d'orrore.

E, nel videogioco horror, questo sicuramente si sposa anche a un altro tipo di gioco, identificato da Callois come mimicry: si tratta dei giochi che simulano, creano e accettano una realtà-altra come vera, fino a quando l'attività ludica è in corso. Immaginatelo, ad esempio, come un gioco di ruolo nella realtà (LARP, per i più pratici), in cui nessuno trova strano vedere altre persone andare in giro con spade, scudi ed elmi.

Così, il mondo di Silent Hill non viene mai visto come un insieme di poligoni e texture, mentre ci si butta al suo interno: si accetta che quella sia la nostra realtà, fintanto che ci siamo dentro, e si provano emozioni di conseguenza. "Vertigini" comprese.

Proiezioni orrorifiche

Il punto chiave che il videogioco propone, rispetto semplicemente al guardare un film horror, o leggere un libro di genere, è la proiezione. Come spiegato in modo molto interessante da Stefano Triberti e Luca Argenton in "Psicologia dei videogiochi: come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento" (Apogeo, 2013, Santarcangelo di Romagna), quando giochiamo si crea una sorta di sovrapposizione di identità: io esisto nel mondo reale, e il mio protagonista esiste nel mondo virtuale.

A fare da ponte tra i due, c'è una terza identità, quella proiettiva, che è costituita dalle caratteristiche del protagonista tracciate dagli sviluppatori, sommate alle mie specificità come persona e giocatrice. La mia Jill Valentine legge le situazioni in modo diverso da quella giocata da Domenico, ad esempio, e si comporta secondo la mia interpretazione del mondo in cui si trova.

Questo fa in modo che il coinvolgimento nel videogioco sia più forte che negli altri medium, perché il videogioco è un mezzo attivo e partecipativo. Si fruisce agendo, anziché assistendo all'azione già compiuta. Si è parte attiva del mondo di gioco, perché ci si è proiettati dentro e ci si compiono delle azioni. La sua chiave di volta è nell'influenzare (nei limiti concessi dal design del gioco) l'azione in svolgimento, e non attendere con ansia di scoprire come Jill affronterà la prossima orda di zombie: l'orda di zombie la dobbiamo affrontare noi.

Potremmo dire che questo amplifica tutti i concetti espressi dai diversi studiosi in apertura a questo articolo: le sensazioni di soddisfazione per lo scampato pericolo, ad esempio, hanno tutto un altro sapore quando sentiamo di aver scampato noi il pericolo, e non di aver guardato un protagonista scamparlo in un film, senza che fosse richiesto il nostro intervento.

Appare evidente, allora, che ci siano milioni di possibili motivi differenti per cui l'umanità ami il genere horror. E appare ancora più chiaro perché ci sia un grande debole per i videogiochi horror, dove ogni sensazione è amplificata dall'azione da compiere in prima persona. Ci sottoponiamo a stimoli spaventosi che svegliano in noi ansia, paura, disagio, ma sappiamo che prima o poi li supereremo, perché dopotutto è anche lì che sta la sfida del gioco.

Quando giochiamo i giochi horror, allora, probabilmente vogliamo anche sapere di essere abbastanza abili e coraggiosi da uscirne, in un modo o nell'altro. Vivi, possibilmente.

Questo ci restituisce al mondo reale con un certo senso di soddisfazione per essere riusciti nell'impresa – e più ci ha scosso più è grande la soddisfazione – e si lega molto bene all'idea di Scrivner che ci si interessi all'horror per quello che proviamo quando riusciamo a gestire le emozioni soverchianti.

Dopotutto, gli zombie, i fantasmi, gli orrori interiori dei protagonisti sono solo virtuali. Non succedono davvero e non esistono. Però, esiste quello che proviamo nei viaggi che compiamo con loro, e che ci racconta qualcosa su di noi – uno spavento alla volta.

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