Ci sono molti giochi horror bellissimi, ma questi lo sono un po' di più

Il panorama dei giochi horror è ricchissimo: abbiamo chiesto alla nostra redazione di raccontarvi i loro preferiti.

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a cura di Stefania Sperandio

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Il weekend lungo di Halloween (finalmente una gioia dal calendario del 2021, ndr!) è un ottimo momento per rilassarsi in compagnia dei videogiochi. O per terrorizzarsi, in compagnia dei videogiochi, vedete voi.

Quando molti membri della nostra redazione erano più giovani e muovevano i primi passi in compagnia dei videogiochi, Halloween non era una ricorrenza ancora così celebrata – ma questo non cambia che un po' tutti quanti abbiamo avuto una nostra storia con i videogiochi horror, e che alcuni di questi ci sono rimasti particolarmente nel cuore.

Abbiamo allora deciso di mettere insieme un po' di ricordi, feels e soprattutto nomi, per raccontarvi quali sono i videogiochi horror preferiti da alcuni membri della nostra redazione.

In questo piccolo racconto corale, troverete giochi provenienti un po' da qualsiasi epoca, più soft o più determinati nel farvi accapponare la pelle e farsi ricordare a lungo. Tanto a lungo, da essere stati scelti tra quelli che ci sono rimasti più nel cuore.

Da solo nel buio

Marcello Paolillo - Staff Writer

In piena era PSOne, i survival horror erano all'ordine del gioco, specie per il successo travolgente di serie storiche come quelle di Resident Evil e Silent Hill. Alone in the Dark: The New Nightmare decise di unirsi alla festa nel 2001, tentando di riportare in auge il franchise che – di fatto – ha dato ufficialmente via al genere nel lontano 1992.

Ambientato tra le ombre della terrificante Shadow Island, il gioco ci metteva nei panni di Edward Carnby e Aline Cedrac, rispettivamente un investigatore privato e una giovane professoressa di etnologia, coinvolti in un orrore più grande di loro che li porterà a varcare le soglie di una dimensione alternativa chiamata Mondo dell'Oscurità.

Il migliore amico di Carnby, Charles Fiske, viene ritrovato morto ai margini dell'isola della costa del Maine, da oltre due secoli proprietà terriera della misteriosa famiglia Morton. Carnby e Aline partono quindi alla volta di Shadow Island, venendo però loro malgrado separati bruscamente a causa di un incidente aereo. Da quel punto, la loro storia prosegue a seconda del personaggio che si sceglie di interpretare, attraverso foreste, oscure caverne e, ovviamente, una lugubre villa tutta da esplorare (vi ricorda forse qualcosa?).

Riprendendo le inquadrature fisse tipiche della serie di Biohazard, Alone in the Dark: The New Nightmare riusciva però a brillare di luce propria grazie a un'atmosfera dalle tinte lovecraftiane realmente agghiacciante, riuscendo contempo a scrollarsi di dosso l'etichetta di semplice clone di Resident Evil, ingiustamente affibbiatole col tempo.

A condire il tutto, una gestione della torcia elettrica ai tempi davvero molto interessante, con la possibilità di annientare le ributtanti creature puntando loro addosso il fascio di luce, il tutto con la presenza pressoché costante di vari enigmi ambientali, vero e proprio leitmotiv del genere di appartenenza. Insomma, un piccolo, grande horror incompreso della gloriosa era a 32-bit, che ora più che mai andrebbe riscoperto e rivalutato.

Ritorno a Raccoon City

Silvio Mazzitelli - Redattore

I videogiochi horror mi sono sempre piaciuti, ma riconosco di avere dei limiti. Non sono mai riuscito a giocare alcuni capolavori del genere, tra cui i vari Silent Hill, proprio perché non riuscivo a sopportare la tensione generata dalle splendide quanto inquietanti atmosfere del titolo Konami.

In una mia ipotetica scala degli horror, in cui inserirei la saga di Silent Hill tra le più paurose mai fatte, mi fermo a un livello intermedio, per me rappresentato dai Resident Evil. Nonostante i molti spaventi, sono molto affezionato alla saga Capcom, e Resident Evil 2 è indubbiamente il mio capitolo preferito.

Come ho amato il titolo uscito originariamente sulla prima PlayStation, ho amato allo stesso modo anche il remake del 2019, che è riuscito a farmi rivivere le stesse identiche emozioni di vent'anni prima. Se mai esistesse un manuale su come fare un buon remake videoludico, allora bisognerebbe inserire tra i migliori esempi proprio Resident Evil 2 Remake.

Gli sviluppatori di Capcom sono riusciti a creare un titolo adatto ai tempi attuali, mantenendo però intatto il fascino dell'originale e le emozioni e la tensione che questo sapeva trasmettere. Il primo incontro con i Licker è ancora di grande impatto, pur essendo già preparati alla scena, e sentirli muoversi sui soffitti o nelle stanze buie ancor prima di vederli fa sempre scorrere un brivido lungo la schiena.

Senza contare il terrore di un rinnovato Mr. X, ora ancor più inarrestabile e pericoloso nei suoi inseguimenti. Difficilmente altri videogiochi mi hanno fatto provare il senso di ansia che si sperimenta nell’essere costantemente braccati da questo pericoloso e invincibile energumeno. Senza contare poi il fascino delle boss battle e l’epica scena del coccodrillo nelle fogne.

Se amate gli horror, ma avete dei problemi con quelli più paurosi, allora vi consiglio Resident Evil 2 Remake: vi spaventerà, ma mantiene sempre quel fascino da film horror di serie B dove è comunque possibile risolvere tutto con un colpo di fucile a pompa nella testa di uno zombie.

Nello spazio nessuno può sentirti urlare

Francesco Corica - Junior Staff Writer

Se dovessi fornire un esempio di quale gioco io consideri il cosiddetto l'«horror perfetto», risponderei senza alcun dubbio di andare dritti su Dead Space, che ancora oggi ritengo essere un piccolo capolavoro, soprattutto per quello che ha rappresentato per gli anni in cui guardavo i giochi appartenenti a questo genere con molto scetticismo.

Il titolo di Visceral Games riusciva a riprodurre perfettamente la tensione di ritrovarsi intrappolati in una nave spaziale da soli contro gli spaventosi necromorfi, in grado di incutere timore ad ogni singola occasione. L’abilità di poter smembrare i nemici con la giusta inclinazione e con le poche risorse disponibili sono riuscite a formare l’equilibrio perfetto tra un survival horror e un action in terza persona: una fusione di elementi che ha reso questo horror accessibile anche a chi non masticava tantissimo il genere, rendendolo dunque un eccezionale entry point.

Proprio per questa sua natura accessibile, ma comunque impegnativa, Dead Space è stato il titolo che da più giovane mi spinse a rivalutare con attenzione anche altre saghe, facendomi scoprire delle perle videoludiche che altrimenti avrei continuato ad ignorare. Ritengo che ancora oggi questo gioco possieda stile da vendere e che possa ancora insegnare qualcosa a tantissimi altri videogiochi moderni: proprio la sua presentazione è stata in grado di conquistarmi fin dai primi istanti, facendomi provare sensazioni che fino a quel momento non avevo mai provato con un videogioco.

Dead Space sapeva perfettamente quando farmi provare paura, ma allo stesso tempo quei momenti jumpscare non interrompevano minimamente il flusso dell’azione: non sono mai risultati forzati ed erano funzionali per il gameplay e la stessa narrazione. Fortunatamente, il franchise sta per tornare grazie ad un nuovo remake: potete dunque immaginare quanto la notizia mi abbia entusiasmato, tenendo conto dei ricordi che questo franchise mi ha lasciato.

In attesa di scoprirne di più, il mio suggerimento per festeggiare Halloween è dunque quello di recuperare l’opera originale di Visceral Games. Basteranno pochi minuti per farvi comprendere come mai Dead Space rimanga, ancora oggi, nel cuore di tantissimi appassionati (compreso il mio). E perché non meriti in alcun modo di essere dimenticato.

La stanza degli orrori

Giulia Francolino - Redattrice

Ho sempre pensato di appartenere a quella categoria di persone che hanno paura dei giochi horror, ma col passare degli anni sono rimasta piacevolmente stupita nello scoprire che in realtà sono tra i miei preferiti in assoluto. L’orrore fine a se stesso non mi è mai interessato, ho sempre avuto un debole per le grandi storie e per i personaggi importanti.

Quando ho scoperto la saga di Silent Hill ho realizzato che l’horror era l’espediente perfetto per raccontare al meglio la solitudine, il dolore e la paura, ma anche sentimenti positivi come l’amore, il desiderio di dare tutto per gli altri e perché no, a volte anche la gioia.

All’improvviso, tutti quelli che inizialmente non erano altro che mostri spaventosi e creature infernali si sono rivelati per quello che erano realmente, ovvero una perfetta metafora per rappresentare i pensieri negativi, i traumi e i disagi mentali del protagonista. Ho amato tantissimo la maggior parte dei capitoli, ma quello che mi è rimasto più impresso in assoluto è Silent Hill: The Room.

Le sue ambientazioni claustrofobiche, le sue foreste buie e le sue rocce misteriose mi hanno stregata fin dal primo secondo. Ciò che ha reso particolarmente inquietante la mia esperienza con questo gioco è stata la presenza del buio appartamento del protagonista, al quale il giocatore è costretto a fare ritorno più volte al giorno per salvare la partita e per fare rifornimento tramite il baule.

La stanza di Henry, ovvero l’unico ambiente “familiare” dell’intero gioco, era in realtà il luogo più terrificante di tutti: ogni volta che ci tornavo non sapevo cosa avrei trovato al suo interno, tra mostri  appesi alle pareti, voci misteriose provenienti dalla segreteria telefonica e mobili leggermente spostati nonostante la presenza di una decina di lucchetti sulla porta.

A rendere tutto più spaventoso e, per me, ancora più meraviglioso, la splendida colonna sonora di Akira Yamaoka, che ancora oggi a distanza di anni non riesco a smettere di ascoltare.

Piccoli incubi

Marino Puntorieri - Redattore

Difficile per il sottoscritto parlare di un gioco preferito nel panorama degli horror più e meno moderni: in primis perché, nonostante mi ritenga una persona semplicemente curiosa della varietà di produzioni videoludiche, per la categoria in esame non sono mai riuscito a fare quel passo a braccia aperte e a cuor leggero.

In sostanza i titoli horror mi fanno paura, da sempre. Non riesco minimamente a giocarli – così come non riesco a vedere film analoghi se non con luci accese e qualche buon amico – e vuoi per un semplice jumpscare o una qualche situazione di tensione difficile da decifrare ho sempre nascosto dietro una sfacciata diffidenza quella che invece è traducibile in semplice... fifa.

Al netto però di aver rivelato a voi lettori il mio punto debole – paragonabile alla Kryptonite per Superman – sono riuscito a pescare tra i ricordi più recenti e consigliarvi un titolo che rientra perfettamente nella categoria, ovvero Little Nightmares. Perché consigliarvelo? In primis, ovviamente, perché nonostante le premesse è stato l’unico titolo “horror” che sia riuscito a giocare coraggiosamente ed apprezzare senza riserve.

Un’avventura a tratti disturbante, realizzata nel 2017 da Tarsier Studios, e che più passa il tempo più considero preziosa, soprattutto ripensando al vortice di emozioni provate in quella manciata di ore necessarie a raggiungere i titoli di coda. Parlo di un’esperienza consigliata a chiunque e che sprizza carattere da ogni pixel, dove impersoniamo una minuta bambina dal vistoso impermeabile giallo che senza particolari indicazioni o consigli su schermo cerca di fuggire da un misterioso complesso e suoi tanto grotteschi quanto terrificanti abitanti.

Se per qualche strano motivo non avete mai sentito particolarmente parlare di Little Nightmares non sarò di certo io a rovinarvi la sorpresa scaturita da ogni stratagemma impiegato per fuggire dalle creature più ostili, ma se vi state chiedendo se possa valerne la pena non posso che rispondervi positivamente – e con una certa fermezza. Merito soprattutto di un sound design incredibilmente caratterizzato per trasmettere un costante senso di inquietudine, che martella i timpani del videogiocatore sia nelle situazioni di pericolo sia in quelle (apparentemente) più tranquille.

Ovviamente ci sarebbe anche un secondo capitolo che prosegue ed evolve la narrazione mantenendo gli stessi punti di forza elencati per il capostipite, ma devo ancora prepararmi psicologicamente a giocarlo.

Laghi e oceani

Valentino Cinefra - Junior Staff Writer

Non sono un grande cultore dei videogiochi horror, perché sostanzialmente mi impressiono con poco. Però non li disprezzo, ne ho giocati alcuni facendomi forza.

La scelta facile sarebbe un Resident Evil a caso, magari il settimo capitolo visto che è in prima persona e siete meno armati che in Village, quindi c’è più tensione per tutto il tempo. Però è troppo semplice e, immagino, qualcun altro prima o dopo di me li avrà già consigliati. Non ho un videogioco horror preferito in assoluto, ma se ve ne dovessi consigliare uno e fare una scelta magari controcorrente direi Alan Wake Remastered.

La storia dello scrittore di Remedy non è un vero e proprio horror, ma l’atmosfera è quella di un racconto dell’orrore, un thriller con elementi sovrannaturali e un videogioco che andrebbe riscoperto. Come gameplay è invecchiato un po’ male, ma il modo in cui viene raccontata la storia di Alan, e in generale tutta la narrazione, è qualcosa che vi sorprenderà, se non l’avete mai vissuto.

Visto che è uscita la versione ripulita e corretta vi consiglio di recuperarlo su console, ora che potete giocarlo anche su hardware PlayStation per la prima volta.

Farfalle cremisi

Stefania Sperandio - Editor in chief

Vedo che, come molti dei miei colleghi che hanno deciso di raccontarvi l'horror che più gli è rimasto nel cuore, anche io vado a rimpolpare la schiera di coloro che non metterebbero il genere in cima ai loro preferiti. Eppure, quasi con incoscienza rispetto alle inclinazioni personali, anni fa mi tuffai su un titolo d'orrore dopo averne provato la demo e ne rimasi innamorata. E inquietata. Probabilmente in pari misura.

Le foreste buie in cui mi ritrovai, a cercare di scorgere inquietanti presenze – le orecchie tese per cogliere anche solo un ciottolo che mi segnalava un passo alle mie spalle – non erano nemmeno tanto terrificanti, rispetto a quando mi trovai al cospetto di alcune ambientazioni riemerse direttamente dal folklore e dall'immaginario giapponese per dare vita al villaggio di Minakami.

Ogni cosa era spaventosa e, soprattutto, non avevo niente per difendermi. In Project Zero II: Crimson Butterfly, non hai nulla, se non la Camera Obscura, per respingere le orribili presenze che cercano di agguantarti. Non hai uno strumento, una "vera" arma, che ti faccia sentire protetto, al sicuro, quell'idea che «finché ho munizioni ce la posso fare, venite pure». E così, le due gemelle Mio e Mayu si ritrovano risucchiate in una spirale di morte e sacrifici umani che hanno lasciato nella dannazione le anime del villaggio. Il rituale cremisi deve essere compiuto e di chi sia la prossima vita che sarà portata via non è importante. Io volevo disperatamente che non fosse la mia. O quella di mia sorella.

È in questo contesto che mescola l'orrore dell'ignoto, le suggestioni sulle anime che non trovano pace e l'immaginario del folklore giapponese, che ci si trova intrappolati in un orrore dilettevole e un intrigo da cui si fa fatica a staccarsi. Sono passati molti anni ma continuo a portare nel cuore quei momenti, perché Project Zero II è stato l'unico horror (esclusi quelli dove si fa la guerra agli zombie, che non riescono a toccarmi affatto le corde dell'orrore) che trovai così intrigante e bello da andare oltre ai paletti dei generi a cui di solito mi dedico.

Sarà anche invecchiato, ma se siete appassionati dell'immaginario orrorifico giapponese, sarebbe un crimine lasciare nell'oblio Crimson Butterfly e il suo villaggio di desolazione. Ad Halloween, insomma, sapete cosa dovete fare. Perderete ore di sonno e qualche certezza, ma ne varrà la pena.

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