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Fable Legends, il gioco e la svolta multiplayer | Post Mortem #11, pt. 1

Nella prima parte del Post Mortem #11 scopriamo le ragioni dietro questo "Fable meets Left 4 Dead meets Dungeon Keeper meets League of Legends"

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a cura di Paolo Sirio

Nei giorni in cui si vocifera di un ritorno di Fable per mano di Playground Games, che potrebbe venire confermato all’E3 2019 di giugno, ci torna inevitabilmente alla mente il modo in cui la serie di Lionhead Studios si era interrotta nel neanche troppo lontano 2016. In un periodo di grandi cambiamenti in casa Xbox, Microsoft aveva tentato di adattare quello studio e quella IP ad una nuova filosofia, quella dei games as a service, che avrebbe poi visto, sebbene tra tanti sali e scendi, Rare tornare in grande stile con il suo Sea of Thieves. Ma, contrariamente alla software house che aveva dato i natali a Perfect Dark, nel caso di Lionhead le cose non andarono bene allo stesso modo, per il tentativo di utilizzare un marchio amato da un certo tipo di pubblico su un progetto che forse avrebbe necessitato di una proprietà intellettuale del tutto nuova e per le molteplici altre ragioni delle quali discuteremo nel Post Mortem #11.

Un numero inusuale, dal momento che per la prima volta non parleremo di un gioco cancellato dopo il solo annuncio ma addirittura a termine di una fase di lancio e una lunga permanenza in uno stato di closed beta. E una storia che necessariamente va a braccetto con quella dello studio alle sue spalle, chiuso d’un tratto come si spegne un server – qui in un senso letterale. Si alzi il sipario sulla favola interrotta a metà di Fable Legends.

fable legends

Cosa sarebbe stato

Nel caso di Fable Legends, la formula del ‘cosa sarebbe stato’ che adoperiamo generalmente per i Post Mortem non è troppo calzante, dal momento che l’uso del condizionale risulta fuori luogo per un gioco effettivamente pubblicato, seppur in uno stato preliminare. L’ultimo titolo di Lionhead Studios è stato infatti oggetto di una beta a numero chiuso per quasi due anni, sempre lì lì per venire lanciato in una forma completa, come vedremo avanti, che mai si è concretizzata nella realtà nonostante il team di sviluppo si dicesse pronto ad un day one in senso stretto.

Ad ogni modo, parliamo di un gioco che avrebbe avuto, e in parte ha avuto, il tratto autoriale della software house co-fondata da Peter Molyneux, pur piegato alle esigenze di Microsoft Studios e plasmato dalle idee di Phil Harrison (ex PlayStation responsabile, al tempo, degli studi europei) nel campo dei prodotti con una lunga vita post lancio. Il pitch, a ben vedere avanti rispetto a tempi come quelli moderni che hanno dato respiro ai multiplayer asimmetrici in stile Dead by Daylight, prevedeva di realizzare un Dungeons and Dragons con quattro amici e un dungeon master, quello che fonti vicine al team definirono dopo la cancellazione un “Fable meets Left 4 Dead meets Dungeon Keeper meets League of Legends”, e che in origine avrebbe dovuto avere qualcosa pure di LittleBigPlanet nell’approccio (poi spuntato) ai contenuti generati dagli utenti.

Gli sviluppatori di LS non avevano mai lavorato ad una produzione multigiocatore, per cui, sebbene disponessero di una proverbiale creatività mantenuta anche dopo l’addio di Molyneux nel 2012 e di altri membri senior (testimoniata, potremmo dire scherzosamente, dalla volontà di far rientrare tra le emote il classico peto del franchise ruolistico), tentarono – per entusiasmo e inesperienza – diverse strade prima di arrivare a quella che sarebbe stata la formula finale del titolo.

Una formula finale che avrebbe previsto partite chiuse, in livelli chiusi, quattro eroi e un villain, con ciascun ruolo ricoperto da un utente online o da un’intelligenza artificiale. Quest’ultima sarebbe stata fondamentale nel caso in cui l’utente in questione avesse voluto giocare da solo, seppur con l’obbligo di avere la console sempre connessa alla rete, sia nei panni dei buoni che in quelli del cattivo di turno. Il gioco sarebbe dunque stato un 4v1, in cui gli eroi avrebbero dovuto battere i mostri e gli ostacoli posti lungo un livello creato in un minuto dal villain interpretato da un altro player.

In questo minuto, il giocatore-cattivo avrebbe avuto una visuale top-down sul livello in stile RTS, posizionando i nemici e decidendo quando avrebbero dovuto spawnare, quanto sarebbero stati aggressivi, dove introdurre trappole, e a che punto dello stage far comparire il boss. Ogni mostro inserito nel campo di battaglia avrebbe avuto un costo, quindi era necessario gestire al meglio le risorse per avere una partita equilibrata. Una volta partito il match, il suo compito sarebbe stato gestire le unità come in un vero e proprio strategico in tempo reale, facendo loro attaccare determinati eroi, creare imboscate o innescare abilità speciali; si sarebbero potuti attivare dei cancelli, ad esempio, per dividere gli avversari e rendere il team più debole. Questa modalità sarebbe stata giocabile sia col controller che, attraverso l’app second screen Smartglass, su uno smartphone o un tablet.

Ogni eroe avrebbe avuto delle caratteristiche specifiche e un compito preciso: Sterling, maschera tipica di Fable, era dotato di stocco e coltelli da poter lanciare ai nemici; Winter usava la magia e in particolare poteri legati al ghiaccio; Rook aveva una balestra ed era il top per i combattimenti alla distanza; Inga, una paladina con armatura pesante, un grosso scudo e una spada. Dal punto di vista degli eroi sarebbe stato un action non troppo dissimile dai canoni della serie, e avrebbe avuto – pur non essendo open world come i predecessori – un hub chiamato Brightlodge, una città in cui ingannare il tempo con minigiochi, lavori e pub game; scelta la missione e fatto il matchmaking/riuniti gli amici, si sarebbe partiti alla volta del livello stabilito senza passare per movimenti liberi nel mondo del gioco.

Dal momento che il gioco era programmato per essere gratuito, la personalizzazione sarebbe stata basata sulle microtransazioni, che pure vennero introdotte prima della chiusura dei server; gli acquisti erano possibili non solo tramite valuta reale ma anche ottenendo oro nel proprio gameplay e reinvestendolo in skin e componenti estetici. Le microtransazioni avrebbero però avuto un appoggio stagionale: ciascun eroe sarebbe stato disponibile per un periodo di tempo limitato, dopodiché un altro roster avrebbe preso il posto di quell’originale ad ogni cambio di stagione; sarebbe stato possibile acquistare un eroe con valuta reale o interna nel caso in cui ci fossimo affezionati ad uno di loro, ma l’idea era appunto di avere un set di personaggi variabile a seconda della season in corso, dalla durata di due settimane.

Terminata la rotazione delle stagioni – la prima delle quali avrebbe potuto contare su ben sedici aree -, si sarebbe presumibilmente ricominciato daccapo, con gli eroi già utilizzati ‘sbloccati’ con i punti esperienza e l’equipaggiamento che avevamo ottenuto di nuovo in nostro possesso. Lo stesso sarebbe valso per i villain, che avrebbero avuto per ogni stagione una squadra di mostri diversi da poter dispiegare sul terreno di gioco, con la possibilità di pagare per mantenerli a prescindere dall’alternanza temporale. L’intuizione in origine era che questo meccanismo sarebbe stato sufficiente, insieme alle skin, ad alimentare finanziariamente Legends; ma, è evidente, non fu abbastanza.

Cos’è stato

Come testimoniato da numerose fonti in seguito alla chiusura di Lionhead, alla base del progetto Fable Legends troviamo la gestione abbastanza ambigua che dei team first party Microsoft veniva fatta al tempo. Dopo che nel 2013 Don Mattrick lasciò la compagnia, in seguito ai tanti rimpasti della sua visione originale per Xbox One prima del lancio di fine anno, ci fu un breve interregno alla guida della divisione gaming del veterano Marc Whitten, cui seguì nel 2014 l’ascesa di Phil Spencer, precedentemente responsabile dei Microsoft Studios su scala globale.

All’inizio della generazione era stato assunto Phil Harrison, dirigente di alto profilo che con Sony aveva lanciato PS3 presentandosi come figura di rottura quando l’immagine pubblica del gigante giapponese vacillò sotto i colpi della visione un po’ troppo spinta di Ken Kutaragi per la nuova console (ricorderete tra le altre cose il controller Boomerang); un personaggio del genere difficilmente si sarebbe accontentato di un ruolo da comprimario, e infatti quando fu messo alla guida di Microsoft Studios in Europa fece di tutto per far sentire il suo peso sulle realtà che sarebbero dipese da lui.

Al tempo, Harrison usciva da un’esperienza alquanto formativa come advisor speciale in una compagnia chiamata London Venture Partners, che con sede nel Regno Unito investiva su nuovi modelli di business nel mondo del gaming e puntò, tra le sue prime mosse, su Supercell. Guardando il caso di successo di Clash of Clans, il dirigente britannico si convinse del fatto che i videogiochi, per avere successo, avrebbero necessitato di cicli vitali più lunghi di quelli cui eravamo abituati in quegli anni, in modo da poter rientrare facilmente delle spese e fruttare più incassi; un’idea avveniristica, si potrebbe dire, visto che poi avrebbe plasmato di fatto l’intera gen di Xbox One e PS4, rendendo il modello dei tripla-A un po’ meno complesso da portare avanti.

Con questo concetto ben stampato in mente, l’ex Sony porta Rare allo sviluppo di quello che sarebbe diventato Sea of Thieves, il suo primo titolo multiplayer online sotto l’egida della ‘nuova’ proprietà, e Lionhead verso Fable Legends. Scondo una fonte, però, “molte parti di Microsoft faticavano davvero con quell’approccio” e tra queste contiamo non solo Lionhead, che infatti tra il luglio e l’ottobre 2012 – consegnato Fable: The Journey – aveva proposto, vedendosi rifiutare, un pitch di Fable 4, ma persino Phil Spencer, che dagli uffici di Redmond spingerà per avere in questo quadro ormai definito nel Vecchio Continente un prodotto più tradizionale con single-player e lo stile tipico della serie.

La testimonianza di questa fonte è abbastanza significativa:

Pensavo che avrei lavorato ad un gioco single-player, una versione più avanzata di Fable 3, ma quando sono andati per farsi approvare il gioco i tre senior designer che l’hanno proposto si sono sentiti dire che ‘non vi sarà dato il permesso di fare Fable 4, o qualcosa che sia l’ombra di Fable 4’. La visione di Phil Harrison per tutti i suoi studi in Europa era adesso per i giochi service-based. Questo è ciò che lui pensava sarebbe stato il futuro dei videogiochi. Non voleva fare qualcosa che fosse un prodotto da £50, dimenticato non appena fosse uscito. Voleva lunghe code di introiti, anche a costo di un guadagno ridotto all’inizio”.


Fonti

Fonti secondarie 1 | 2 | 3 | 4 | Anteprima di Spaziogames

Nella prima parte del Post Mortem #11 abbiamo approfondito quello che sarebbe stato il gioco Fable Legends, e le premesse dietro un progetto che avrebbe visto un cambiamento deciso rispetto ai canoni del franchise impostato da Lionhead Studios; la mentalità portata da Phil Harrison in quegli anni era decisamente diversa da quanto non fossero abituati gli appassionati della serie e, per quanto avveniristica, questa visione avrebbe comportato non pochi problemi sia tra gli appassionati che internamente a Microsoft. Di ciò e di molto altro parleremo nella seconda parte di questo appuntamento.

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Commento

Nella prima parte del Post Mortem #11 abbiamo approfondito quello che sarebbe stato il gioco Fable Legends, e le premesse dietro un progetto che avrebbe visto un cambiamento deciso rispetto ai canoni del franchise impostato da Lionhead Studios; la mentalità portata da Phil Harrison in quegli anni era decisamente diversa da quanto non fossero abituati gli appassionati della serie e, per quanto avveniristica, questa visione avrebbe comportato non pochi problemi sia tra gli appassionati che internamente a Microsoft. Di ciò e di molto altro parleremo nella seconda parte di questo appuntamento.