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Pro
- Non è un classico biopic, ma decostruisce il genere e osa nel distruggere il mito sportivo
- L’interpretazione di Emily Blunt sostiene il peso e la complessità di una narrazione che la rendono a tutti gli effetti protagonista della storia
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Contro
- Lo stile registico strizza l’occhio al mockumentary nelle sequenze sul ring e potrebbe risultare disorganico
- La struttura a tratti anticlimatica è una scelta del regista, lo spettatore potrebbe aspettarsi un epilogo più lineare
Il Verdetto di Cultura POP
Presentato in concorso nell’82ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia The Smashing Machine è l’ultimo film di Benny Safdie, già noto al pubblico per un gioiello del cinema indipendente dal titolo Diamanti Grezzi (2019), scritto e diretto però insieme al fratello Josh.
Questa volta però merito e firma sono esclusiva di Benny, il fratello minore, che sceglie di raccontare straordinariamente la storia ordinaria di Mark Kerr, ex lottatore MMA e due volte campione dei pesi massimi UFC ritratto in un momento di fragilità che non solo per un atleta, ma per un maschio è inconcepibile.
Per restituire l’avanguardia del percorso sportivo dell’atleta, dai primi anni di malfamata lotta estrema in Sud America ai Pride Fighting Championships in Giappone, Safdie attinge da un documentario del 2002 e da alcune interviste con altre leggende — passate e presenti — del combattimento, che testimoniano quanto fama e ambizione avessero un ascendente distruttivo sulla persona al pari di un parassita capace di divorare i campioni dall’interno.
Nel 1997 Mark Kerr infatti non diventa solo il pioniere di una nuova categoria di arte marziale insieme all’amico Mark Coleman, ma è invincibile e domina ring ottagonale e avversari in tempi insolitamente millimetrici. Il titolo del film di Safdie, The Smashing Machine, prende ispirazione dal soprannome di Kerr, una macchina indistruttibile all’apice del professionismo che nell’intimità delle sue relazioni mostra un temperamento del tutto diverso.
L’intero film si basa su questo paradosso, sull’anticlimax straniante che crea l’associazione tra la figura del lottatore, che per costituzione dovrebbe vivere di rabbia, e l’uomo dietro l’atleta che invece sorride, è gentile, rifiuta il concetto di violenza e mantiene sempre la calma. Questo finché non perde la prima volta.
E allora inizia la lenta discesa negli inferi della mente: Kerr non perde solo gli incontri, perde se stesso, i suoi rapporti, i suoi valori e la regressione conseguente alla sconfitta lo immette in una spirale travagliata di dipendenze.
Mark Kerr è un atleta che vuole essere trattato da uomo mentre viene cullato da una figura materna, salvifica e tormentata, quella della compagna Dawn, interpretata magistralmente da Emily Blunt che però è anche una donna e compagna ferita e sull’orlo di una crisi di nervi che non riesce più a sostenere il peso e la frustrazione di non essere vista.
The Smashing Machine non è un classico biopic, non è indulgente né supereroistico e questo lo mette in chiaro subito Benny Safdie: tra un incontro e l’altro, tra una scazzottata e la successiva la macchina da presa si prende il tempo del respiro, ci fa vedere le cose belle che sono tutte racchiuse nella risata finale di un uomo ordinario che per vincere deve tornare a respirare.