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Scalebound, l'esclusiva Xbox One di Platinum Games | Post mortem #1

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a cura di Paolo Sirio

“Dopo un’attenta riflessione, Microsoft Studios è giunta alla decisione di terminare la produzione di Scalebound. Stiamo lavorando duramente per fornire un’incredibile lineup di giochi ai nostri fan per quest’anno, inclusi Halo Wars 2, Crackdown 3, State of Decay 2, Sea of Thieves e altre grandi esperienze”.

Era il 9 gennaio 2017, sembra una vita fa: Microsoft dava un colpo di spugna ad una delle collaborazioni più inaspettate che avesse mai abbracciato, con uno sviluppatore giapponese, e che sviluppatore – Platinum Games, sinonimo se non di qualità assoluta, perlomeno di un certo tipo di videogioco sopra le righe con personaggi eccentrici e culture esotiche a cui affezionarsi “come una volta”. Dalla presentazione a sorpresa dell’E3 2014 fino all’ora più buia di poco meno di due anni fa, quella di Scalebound è una storia che vale la pena ripercorrere, sia perché qualcuno in Amazon pensa il gioco sia ancora vivo da qualche parte negli uffici del platform holder di Redmond, sia perché è ricca di particolari mai approfonditi, risvolti, e misteri irrisolti.

Lo facciamo nel primo numero di Post Mortem, la rubrica di Spaziogames in cui attraversiamo alcune delle storie più controverse, e tristi per gli esiti che hanno avuti su alcuni titoli attesissimi e poi scomparsi, legate alle ultime due generazioni.

Cosa sarebbe stato

Scalebound è nato come un progetto tripla-A con la pubblicazione e il finanziamento di Microsoft Studios, che contrariamente a quanto si potrebbe pensare non ha iniziato ad aprire il portafogli soltanto negli ultimi sei mesi ma ha sempre tentato (sbagliando a iosa, questo sì, chiedere a Too “100 milioni” Human per saperne di più) di avere dalla sua un portfolio degno di nota nonostante le sue carenze nella veste di publisher. Il gioco avrebbe dovuto essere un action nello stile di Platinum Games, ma a questo tratto tipico si sarebbero aggiunte le definizioni di RPG e di multiplayer, territori decisamente meno esplorati per lo studio di Hideki Kamiya e soci.

Un’avventura in cui, però, la software house nipponica volle lanciarsi con grande entusiasmo: lo stesso Kamiya che lo definì il progetto che aveva sempre sognato di poter realizzare, uno in cui far scontrare due creature mostruose con un ruolo relativamente marginale per il personaggio umano controllato dall’utente, e che – all’infuori della lunga gestazione e di una gestione dello studio sempre abbastanza lontana dall’essere ottimale – gradualmente prendeva forma.

L’ambientazione di Draconis, un mondo e forse una dimensione parallela alla Terra, fungeva da luogo ideale per lo sviluppo di una storia a base di draghi e in particolare per quella di Thuban, l’ultimo drago rimasto in vita che per qualche ragione ancora oscura aveva sviluppato un legame magico con un giovane umano risucchiato dalla propria realtà per servire un bene superiore. Drew, questo il nome dell’umano, e il “suo” drago avrebbero avuto dunque un legame forte ma molto conflittuale, come spiegato dagli sviluppatori dovuto al fatto che entrambi sarebbero stati in un’età poco più che adolescenziale e pertanto incline alla discussione facile. Fino all’ultimo momento utile, il team di sviluppo non volle svelare le proprie carte ma fu chiarito che la co-op sarebbe stata giustificata in termini di trama e narrazione, dal momento che in presenza dell’ultimo drago vivente avrebbe fatto strano vederne ben  quattro in azione nello stesso momento.

Per citare Kamiya, il gioco non si sarebbe accontentato di fare il gioco e avrebbe spiegato per filo e per segno, come evidenziato dal collasso spazio-temporale alla fine del trailer dell’E3 2016 seguito ad un attacco combinato dei quattro contro un boss, la coesistenza di questi personaggi e di queste realtà. Inoltre, con una sorta di rapporto Atreus-Kratos ante litteram, Thuban avrebbe smesso di rispondere ai nostri comandi nel caso in cui lo avessimo sollecitato troppo spesso, infastidito, nella sua regalità e in una comunque bizzarra collaborazione se pensiamo ai canoni fantasy, dall’essere continuamente chiamato in battaglia. L’interazione sarebbe stata reale: durante uno scontro, grazie alla funzionalità “Dragon Link”, avremmo potuto passare ad una visuale in prima persona nella quale avremmo guardato Thuban combattere seguendo le nostre specifiche istruzioni.

Questa feature avrebbe avuto come contraltare la completa immobilizzazione dell’umano, che nel mentre sarebbe stato non solo inutilizzabile ma anche completamente esposto agli attacchi nemici; l’idea di base era che questo layer tattico ci avrebbe spinto ad usare il collegamento solo in determinati momenti degli scontri e a non abusarne per evitare di ritrovarci di fronte alla schermata del game over. In generale, Drew avrebbe avuto un ruolo di supporto o giù di lì, causando danni principalmente marginali alle creature gigantesche in cui ci saremmo imbattuti pressoché sempre durante il gameplay: questo si sarebbe tradotto nel lancio di bombe adesive da far esplodere scoccando una freccia, ad esempio, ma pure in strumentazioni più potenti come un’armatura fatta della corazza di drago che si sarebbe estesa dal nostro braccio in determinate condizioni. Lo stesso braccio “dragonesco” ci avrebbe permesso di restare sempre aggiornati sullo stato di salute del nostro alleato, cambiando colore in situazioni di pericolo e curandolo all’evenienza, e altre abilità sarebbero state acquistabili od espandibili con gli skill point.

Come detto, il gioco sarebbe stato un open world con ambientazioni ampie ed esplorabili, con una storia principale da seguire e missioni secondarie da completare inserite perché l’esperienza avesse una durata lunga e un buon valore di rigiocabilità. Le stesse missioni main avrebbero previsto l’assegnazione di un grado alla loro conclusione e sarebbero state rigiocabili per ottenere un voto superiore al pari delle ricompense distribuite. Avremmo potuto utilizzare sfere (l’energia alla base del mondo, come la Forza di Star Wars, si sarebbe chiamata Pulse) e la valuta interna del titolo per potenziare il drago presso specifici altari sparsi per le location, con una serie di personalizzazioni che rendono l’idea di come fosse Thuban il fulcro reale del gameplay.

Prima di tutto, il drago avrebbe potuto essere di tre tipologie diverse: una sorta di Rex su due gambe, equilibrato in ogni suo aspetto; un tank, più lento ma più forte e in grado di sostenere un maggior danno da parte dei nemici; una viverna, veloce e letale in aria ma debole a terra. La customizzazione avrebbe permesso di mischiare elementi di ciascuna razza, andando solo conseguentemente a modificare il look del co-protagonista. Questi avrebbe avuto cinque slot per l’armatura, con i relativi oggetti acquistabili con la valuta ottenuta dai forzieri o facendo quest; l’armatura stessa avrebbe avuto pezzi danneggiabili, per cui saremmo stati chiamati a ripararli o avere sempre delle valide alternative da equipaggiare… al volo.

Inoltre, i draghi avrebbero avuto cinque slot per buff in attacco: una coda di ghiaccio avrebbe permesso in una modalità furia di avere uno speciale attacco elementale. L’obiettivo dello sviluppatore era non solo avere tanti upgrade disponibili ma anche parecchi che dessero un aspetto unico al proprio drago per quando gli utenti avrebbero giocato nella cooperativa a quattro, qualcosa verso cui ci avrebbero spinto svariati modi perché sarebbe stato, a detta dei dev, la funzionalità killer del gioco.

Cos’è stato

Tra il dire e il fare c’è di mezzo non soltanto il mare, ma un vero e proprio mare di problemi che ha attanagliato il progetto Scalebound fin dalla propria nascita. Che, diversamente da quanto possiate pensare, non risale neppure a Xbox One ma a Wii: era infatti il 2006 quando Platinum Games partorì due prototipi, il primo dei quali includeva dinosauri e non draghi. Il concept di fondo era sempre stato far combattere tra di loro creature gigantesche, un’idea molto cara a Hideki Kamiya (la mente alle sue spalle, co-creatore di Resident Evil 2, Okami, e altro ancora), senza necessariamente una specifica alla nascita del primo prototipo. Un prototipo che vedeva il giocatore, proprio mentre in quegli stessi uffici si lavorava a Bayonetta, impegnato col proprio Wii Remote a sbracciare per dare comandi al dinosauro di turno senza avere un’interazione diretta con la battaglia. Questa bozza fu rapidamente scartata in favore non solo dei draghi ma anche di una struttura che desse dei poteri all’utente, ed è qui che il personaggio diventò giocabile con una spada, un arco e altri strumenti simili a quelli poi arrivati nella versione per Xbox.

Una volta puntellati i capisaldi del progetto, e trovato in Microsoft tra i 6 e gli 8 anni dopo un editore volenteroso di foraggiare la visione di un Kamiya che puntava a fare “qualcosa di più” rispetto ai lavori precedenti di PG, venne il momento della presentazione di Scalebound all’E3 2014: il reveal avvenne con un breve cinematic trailer in computer grafica che destò immediatamente reazioni positive tra la critica, che vedeva il produttore di console affiancato da un partner sulla cresta dell’onda, e il pubblico, che aveva una nuova IP per la quale investire su una macchina fino ad allora apparsa mossa da una progettualità confusa per non dire carente.

È però tra 2015 e 2016 che va in scena il dramma videoludico. Nel 2015, Scalebound salta misteriosamente l’E3 in favore della più dimessa Gamescom, presentando non soltanto un gameplay minato da evidenti problemi di frame rate, e da una grafica tipica d’inizio gen vicina ad una grezza tech demo e non ad un giocato vero e proprio, ma per giunta focalizzato sul single-player (ad alimentare i sospetti di chi vi scrive relativi all’aggiunta imposta del multigiocatore), che almeno nelle dichiarazioni sarebbe stato soltanto il punto d’inizio e comunque l’aspetto meno complesso da gestire nel e dal titolo. Già in questa circostanza, in ogni caso, l’impegno con il pubblico è molto largo: c’è una finestra di lancio ma questa, quando siamo ad agosto ’15 e (dettaglio che pochi ricorderanno) in una fase di pre-alpha, è fissata alle vacanze natalizie dell’anno successivo, con delle tempistiche che sembrano sia gestibili in termini di deadline, sia in grado di dare tutto il respiro possibile al gioco perché sistemasse quelle perplessità maturate in fase di showcase.

Nell’aprile 2016, mentre già inizia a montare l’hype per l’E3 in vista di una data d’uscita fissata nel giro di pochi mesi, ecco però la doccia fredda: il gioco viene rinviato al 2017. Nella nota apparsa sul sito ufficiale della software house, ora cancellata, si poteva leggere una bugia spudorata affiancata da una verità ineluttabile: “lo sviluppo sul gioco sta andando bene e siamo molto felici di come sta venendo”, bugia spudorata, visto lo stato dei lavori; “Scalebound è uno dei più grandi giochi che Platinum Games abbia mai creato: un’avventura epica piena di esplorazione e gameplay fantasy, multiplayer inventivo, e battaglie ricche d’azione su una scala incredibile – tutto in un mondo bellissimo ed in continua evoluzione. È il gioco che il nostro  team ha sempre sognato di fare”, eccola, la verità ineluttabile. Un’idea bazzicata nella mente di Kamiya e dei suoi soci per una decina d’anni che aveva finalmente trovato i mezzi per sostenersi e crescere, e che stava collassando su se stessa.

L’E3 2016 del giugno successivo, lo stesso di Xbox Play Anywhere, mostrava infine la “unbelievable scale” delle battaglie e la componente cooperativa, pur continuando a non convincere sotto il profilo artistico per un’identità ancora tutta da trovare e un comparto tecnico che anche di riflesso insisteva a balbettare. Quel rinvio sapeva di ultima chance, è vero. Ma generalmente in queste circostanze di duplici slittamenti non segue una cancellazione, ed è perciò che quella di Scalebound arrivata il 9 gennaio 2017 scosse, coadiuvato da una certa inconsistenza del suo portfolio, Xbox One così profondamente. Se questa è la facciata, c’è tutto un dietro le quinte che rende l’idea del perché il gioco abbia avuto così tanti problemi e abbia faticato a tal punto a mettersi, e rimettersi, in piedi nonostante gli sforzi di entrambe le parti. Nell’autunno del 2016, diversi membri senior, tra cui Kamiya, si prendono un mese di ferie per recuperare dallo stress causato dall’eccessivo crunch e dall’aver gestito una pressione immane per completare il progetto in tempo per il 2017.

Tra fine 2016 e inizio 2017, al rientro di questi membri senior, il progetto è irrimediabilmente indietro con le scadenze, le milestone continuano a venire saltate e i problemi con l’engine ad essere irrisolti. Come in ogni rapporto “second party”, Microsoft e Platinum Games avevano un contratto basato proprio sulle milestone, ovvero sul raggiungimento di determinati traguardi e stati dello sviluppo concordati a tavolino con ampio anticipo, al quale sarebbe corrisposto il pagamento di una certa somma, crescente man mano che ci si avvicinasse alla fine del tunnel. L’ultima revisione, quella che possiamo ricondurre al ritorno dei membri senior del team di sviluppo, fu evidentemente la goccia che fece traboccare il vaso, con Microsoft non più intenzionata a tenere il rubinetto aperto su un prodotto che sembrava non volesse decollare, e soprattutto a portare in giro per le fiere pubbliche qualcosa la cui data d’uscita non fosse definibile e fosse in una condizione di forma (ancora) tutt’altro che accettabile.

Nel mezzo, i rapporti non sempre idilliaci tra sviluppatore e publisher, che si lasciarono con parole al miele l’uno per l’altro e persino l’augurio di tornare a collaborare in futuro – ipotesi che avremmo definito folle, non fosse per il ritorno di fiamma per Obsidian dopo la cancellazione di Stormlands per mano della casa di Xbox -, ma che nel concreto furono minati da una gestione del marchio non gradita a Platinum Games e alcune uscite infelici di Kamiya su Twitter, dov’è storicamente molto attivo e senza peli sulla lingua, e un post nel quale si attribuiva a Microsoft Studios e solo a Microsoft Studios la decisione della cancellazione.

Le buone notizie che possiamo trarre da questa vicenda sono due. In primis, l’autorialità di Platinum Games ne è quasi miracolosamente uscita tutta d’un pezzo, se considerate che a gennaio 2017 veniva cancellato Scalebound e appena due mesi dopo, a marzo, veniva lanciato Nier Automata realizzato proprio dalla software house giapponese in collaborazione con Yoko Taro e Square Enix (oltre a Star Fox Zero che veniva portato avanti in quel frangente insieme a Nintendo).

Al contempo, dopo un paio di scivoloni che ad altri dalle tasche meno capienti sarebbe presumibilmente costato l’estinzione, Microsoft finalmente imparò la lezione e abbandonò il modello delle collaborazioni second party ad alto budget, senza dunque contare gli Ori e i Cuphead poco dispendiosi, che raramente aveva dato soddisfazioni in passato (forse non ne dava più dai tempi di Bungie e BioWare, che però non avevano una vocazione work for hire ed erano più “pantofolaie”) per abbracciare nel 2018 un modus operandi più vicino a quello di Sony, ovvero un catalogo di studi first-party a produrre esclusivamente per le proprie piattaforme, con rischi creativi e tecnologici controllati nonché spese sotto controllo.

Ci sono voluti momenti difficili per tutti, per i fan, per gli sviluppatori e per il publisher, insomma, e probabilmente ne è valsa la pena; perché quei momenti difficili non torneranno tanto presto.

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Le buone notizie che possiamo trarre da questa vicenda sono due. In primis, l’autorialità di Platinum Games ne è quasi miracolosamente uscita tutta d’un pezzo, se considerate che a gennaio 2017 veniva cancellato Scalebound e appena due mesi dopo, a marzo, veniva lanciato Nier Automata realizzato proprio dalla software house giapponese in collaborazione con Yoko Taro e Square Enix (oltre a Star Fox Zero che veniva portato avanti in quel frangente insieme a Nintendo). Al contempo, dopo un paio di scivoloni che ad altri dalle tasche meno capienti sarebbe presumibilmente costato l’estinzione, Microsoft finalmente imparò la lezione e abbandonò il modello delle collaborazioni second party ad alto budget, senza dunque contare gli Ori e i Cuphead poco dispendiosi, che raramente aveva dato soddisfazioni in passato (forse non ne dava più dai tempi di Bungie e BioWare, che però non avevano una vocazione work for hire ed erano più “pantofolaie”) per abbracciare nel 2018 un modus operandi più vicino a quello di Sony, ovvero un catalogo di studi first-party a produrre esclusivamente per le proprie piattaforme, con rischi creativi e tecnologici controllati nonché spese sotto controllo. Ci sono voluti momenti difficili per tutti, per i fan, per gli sviluppatori e per il publisher, insomma, e probabilmente ne è valsa la pena; perché quei momenti difficili non torneranno tanto presto.