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Pro
- l'umanizzazione della Creatura rende la narrazione più intensa e toccante, facilitando l’empatia dello spettatore
- i volti amati dalle nuove generazioni avvicinano i giovani a una storia che potrebbe essere significativa per loro
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Contro
- la cura per i costumi è sbilanciata: ecclettica e splendida nei confronti di Elizabeth, trascurata per gli altri personaggi
- la recitazione di Oscar Isaac non ha brillato quanto quella di Elordi, risultando solo marginalmente incisiva
Il Verdetto di Cultura POP
Dopo anni di attesa, il più iconico dei mostri è approdato alla 82esima Mostra del Cinema di Venezia, facendoci ricordare il motivo per cui, dopo più di 200 anni, suscita ancora fascino e discussione. Per Guillermo Del Toro, Frankenstein è l’origine di tutto: dalla sua primissima visione dell’opera di James Whale, all’età di 7 anni, ha custodito un unico pensiero ovvero raccontare quella storia a suo modo. Deve a Frankenstein la sua mente creativa, i suoi mostri che hanno preso vita sullo schermo. L’adattamento riesce a infondere nuova linfa al romanzo di Mary Shelley, consegnando un racconto che parla a tutti e che, in un’epoca dominata dall’odio, restituisce un insegnamento universale: il vero mostro è l’uomo.
In questo film Del Toro rende tale messaggio ancora più chiaro. Il rapporto tra Victor e la Creatura acquista un peso straordinario: non è solo creatore e creatura, ma una parabola sul mondo che genera senza responsabilità e abbandona ciò che ha creato – siano essi esseri tecnologici, biologici o artificiali. Un invito a riflettere non solo su cosa possiamo creare, ma se siamo pronti a sostenere le conseguenze delle nostre creazioni.
Frankenstein è una storia eterna, raccontata in mille versioni. Del Toro sceglie una via diversa: non ci mostra un mostro che simula l’umanità, ma un essere che diventa umano proprio nel rifiuto, nella fragilità, nella solitudine. La sua cifra stilistica – già evidente ne Il Labirinto del Fauno e La Forma dell'Acqua – è trasformare il diverso, il grottesco, l’inaccettabile, in un varco verso l’empatia.
Oggi l’horror non è solo paura, ma un mezzo per esplorare dilemmi contemporanei, traumi e ingiustizie sociali. Questo film non si tira indietro: ci mostra che il mostro non è la creatura, ma la società che lo respinge, emargina, rifiuta. Il mostro siamo noi, è chiunque abbia provato a essere diverso in un mondo che impone regole. E così finiamo per commuoverci con lui: lo vediamo umano nella solitudine, nella sofferenza, nella sua condizione di escluso.
Se Shelley avesse scritto oggi Frankenstein, probabilmente avrebbe parlato di intelligenze artificiali, ingegneria genetica, vite di laboratorio. Ma il messaggio non cambierebbe: l’uomo è veramente umano solo quando sa prendersi cura della diversità, delle sue creature, delle sue ombre. La versione di Del Toro lancia alle nuove generazioni una verità necessaria: il vero mostro non è chi appare diverso, ma chi si rifiuta di vedere l’umanità negli altri.