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Pro
- Tema affascinante: raccontare una delle più grandi attrici di sempre attraverso il cinema, figlio rivoluzionario di quei tempi
- Sequenza con Sarah Bernhardt di rara intensità
- Ottimo spunto sull’amore della Duse per il palco come filo conduttore.
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Contro
- Regia ridondante e frammentata
- Recitazione enfatica e poco naturale
- Personaggi secondari poco incisivi
- Dialoghi spesso artificiali
- Mancanza di equilibrio tra mito e umanità della Duse
Il Verdetto di Cultura POP
Portare in scena, di qualsiasi tipo essa sia, una figura come quella di Eleonora Duse non deve, non può essere facile.
La sua eredità è quella di una delle più grandi attrici di tutti i tempi, simbolo di un’arte capace di trascendere lo spazio ed il tempo del palco per diventare un’esperienza universale. Tuttavia, proprio per via di questa grandezza, raccontarne la vita, l’esperienza e la potenza richiede un equilibrio fragile: non c’è spazio per retorica ed eccesso.
Un’interpretazione ridondante
Il film Duse, presentato in anteprima all'82esima Mostra del Cinema di Venezia, punta l’occhio di bue sugli ultimi giorni dell’attrice, pur con le migliori intenzioni non riesce a superare questa sfida. Un’interpretazione attesissima quella di Valeria Bruni Tedeschi, guidata dalla regia di Pietro Marcello, che però appare ridondante, come un testo interamente sottolineato. Il tentativo di restituire la monumentalità della Duse finisce per appesantirne i tratti, trasformandola in un simulacro distante e poco credibile. Si arriva a comprendere i suoi vezzi, i suoi capricci, la percezione esasperata delle emozioni, ma non in empatia: non c’è tempo per affezionarsi al suo caos né alla sua grandezza.
La regia che smarrisce il mito
La messa in scena appare ricercata ma sconnessa: il collage di immagini di repertorio, inserito a forza, spinge via dal focus narrativo. Se l’obiettivo era dare voce al mito, il risultato è un continuo ribadire la sua grandezza senza restituirne la sostanza. La recitazione, enfatica e onnipresente, occupa lo spazio ma raramente lo riempie di senso. Ciò che manca sono i silenzi, le fragilità, la naturalezza che avrebbero potuto svelare la differenza tra la Duse donna e la Duse attrice.
Il lampo di Sarah Bernhardt
Tra le varie sequenze, una soltanto emerge: il confronto con Sarah Bernhardt. In poche battute incisive, la rivale e collega restituisce in un attimo ciò che il film intero non riesce a trasmettere. Qui il teatro torna a vivere sullo schermo, mostrando il potere di un gesto misurato e di un dialogo ben costruito. È un lampo che lascia lo spettatore con due immagini divine, ma opposte: da una parte una Duse-Afrodite, piena di manie e fughe dalle responsabilità; dall’altra una Bernhardt-Artemide, libera e consapevole, che brandisce il teatro come arma per cambiare il futuro.
Un mosaico frammentato
Il resto dell’opera fatica a trovare coerenza. Gli episodi si accostano senza filo conduttore, dando vita a un mosaico frammentato che non guida lo spettatore nel percorso emotivo e artistico della protagonista. La scrittura non sostiene il peso della storia, la regia si perde tra suggestioni visive e vuoti narrativi, mentre la forza del teatro resta solo un’eco lontana. Quest'ultimo punto è sicuramente voluto, certo, ma allora dove troviamo il senso della messa in scena, laddove ogni aspetto di questa storia viene annacquato e sbiadito?
Il palco come unico amore
Duse voleva essere un tributo a un’icona senza tempo. Ma l’amore che traspare non è quello per D’Annunzio, interpretato da Fausto Russo Alesi né per la figlia Enrichetta interpretata intensamente da Noèmie Merlant, bensì l’ossessione per il palcoscenico, unico vero compagno di vita. Al netto dei dialoghi sconnessi e dei personaggi insipidi, il film si trasforma in un esercizio stilistico che perde di vista il suo obiettivo primario: restituire l’umanità dietro la leggenda.