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Vite in Gioco

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Avatar di Phoenix

a cura di Phoenix

Pubblicato il 16/05/2014 alle 00:00

Torniamo a parlare di personaggi importanti, e lo facciamo a partire da uno dei più amati e dei più conosciuti. Un salto indietro nel tempo è doveroso, oltre che necessario, così, quando si parla di Big Boss non si può non fare riferimento a quel Metal Gear Solid 3: Snake Eater uscito, in Europa, nel lontano 2005.
Snake Eater è, probabilmente, lo scorcio più poetico ed essenziale della vita di Big Boss, eccellente soldato, addestrato per le operazioni più complesse e con un profondo senso del dovere. Così, le motivazioni che accostano questo titolo alla rubrica Vite in Gioco sono molteplici, e tutte estremamente valide. I temi messi a disposizione del videogiocatore sono molto profondi e assolutamente degni di una piccola riflessione; si va, infatti, dalla dicotomia uomo-soldato, già trattata in Sons of Liberty, a quella amore-dovere, passando, ovviamente, per il confine sottile che separa realtà e finzione.
Snake Eater presenta al videogiocatore la nascita di questa leggenda; con un flashback ben orchestrato e, soprattutto, ben costruito, Kojima apre il sipario sulle vicende che hanno condotto un soldato, un uomo, un patriota, a divenire, a conti fatti, ciò che per il videogiocatore egli è già, Big Boss.
Eppure, l’intera vicenda di Snake Eater è circondata da una nebbia di amarezza, permeata da una costante atmosfera di tristezza, che riecheggia, indissolubile, in quel finale altrettanto amaro e, in fin dei conti, silenzioso. Resta l’immagine di Big Boss che saluta il suo mentore con un gesto di profondo rispetto, di ammirazione, perchè le maschere, ormai, sono definitivamente cadute, e il prezzo di quella finzione è stato davvero troppo alto. Così, il finale di questo Metal Gear è ben lontano da quell’atmosfera di speranza che in un certo senso si respirava alla fine di Sons of Liberty, quando il monologo di Snake rappresentava una sorta di arcobaleno dopo una devastante tempesta.
Il finale di Snake Eater mostra al videogiocatore un uomo profondamente segnato dal dolore, consapevole, ormai, del vero significato del sacrificio, e deciso a far cadere quelle maschere che si agitano, vorticosamente sul palcoscenico della politica e della guerra. Eppure, egli non sa ancora che, a volte, le maschere sono la sola cosa veramente reale, mentre la realtà che si cela dietro di esse non è nient’altro che vuota finzione.
Un uomo solo
Riuscire a identificare, con precisione, il momento esatto della nascita della personalità di Big Boss non è affatto semplice, eppure, attraverso Snake Eater, Kojima permette al videogiocatore di comprendere almeno le origini di quel nome, Big Boss, che risuona come leggenda. Tuttavia, non si può non constatare un certo profondo legame tra gli avvenimenti di questo titolo e il futuro che il videogiocatore già conosce. Le vicende dell’operazione Snake Eater fungono, come in una circonferenza perfetta, da conclusione e nello stesso tempo da preambolo per ogni considerazione essenziale. Perchè queste vicende non possono non lasciare un segno indelebile, e profondo, all’interno della coscienza di quel soldato che, prima di tutto, è un uomo. Il suo titolo, e il suo nome, non sono altro che maschere, finzioni costruite ad hoc per salvaguardare interessi più grandi, più importanti; un titolo destinato a far riecheggiare il suo eco all’interno della storia, senza mai perdersi, senza mai modificarsi. Eppure la sua leggenda, in realtà, deve ancora nascere, essa non può che cominciare da queste vicende, da questa operazione, e necessariamente farvi ritorno, perchè la verità più forte che si può cogliere all’interno della sua avventura è quella che “Big Boss” non è un titolo dato ad un soldato, esso è un nome dato ad uomo. Ed è quello stesso uomo che si farà portavoce degli ideali di The Boss, trasfigurandoli, modificandoli attraverso i suoi occhi che vedono le maschere, ma non le osservano.
Così, il videogiocatore arriva a comprendere le ragioni del rifiuto di Big Boss, che si appropria di ideali profondi per poter guarire quelle altrettanto profonde ferite inferte alla sua coscienza dal suo stesso senso del dovere, senza sapere, a conti fatti, che per poter condividere un ideale così profondo occorre, necessariamente, comprenderlo fino in fondo.
In questo modo, Snake Eater getta luce su alcune di quelle ferite che segnano l’animo di questa figura, che ne esce diversa, quasi trasfigurata e, in definitiva, essenzialmente più “vera” di quella che il videogiocatore aveva conosciuto fino a quel momento. 
 
Un uomo, il Dovere
Il complesso intreccio di Snake Eater ruota, a conti fatti, attorno al sacrificio in funzione del dovere. Il vero teatro che da origine alle maschere di questo titolo è proprio il Dovere indiscusso; così, come una sorta di microcosmo a se stante, il sacrificio di The Boss rappresenta il paradigma essenziale di tutte le vicende a cui il videogiocatore ha preso parte. Un sacrificio assoluto dei propri ideali, dei propri affetti, della propria natura, per lasciare spazio solo al dovere; eppure, c’è una sorta di shakespeariana vittoria nel sacrificio compiuto da The Boss, una vittoria che il nostro protagonista non è riuscito a vedere sino alla fine, e che, forse, il videogiocatore non era ancora pronto ad ammettere.
Al di là del dovere, esiste il profondo amore di un mentore verso il suo allievo, un sentimento che non accresce il senso della parola “sacrificio“, ma che addirittura riesce a darle un nuovo, e più profondo, significato. Questa è la vera maschera che cade alla fine della storia, è con questa consapevolezza che Snake può accogliere il suo Dovere, diventare un unicum con esso e cessare di essere una semplice e mera pedina all’interno di quel grande gioco che esige solo sacrifici.
Solo così, alla fine, dinanzi la tomba del sua mentore, Big Boss diviene, a conti fatti, Big Boss, mentre le sue vicende ci riportano alla mente quell’amore per il dovere di kantiana memoria, unico sentimento che può far realmente accettare, alla coscienza, un sacrificio dell’essere in favore del dover essere.
Diviene evidente, allora, che evitare l’escalation tra USA e URSS non era l’obiettivo di Snake, così come non era suo obiettivo l’Eredità dei Filosofi. Il suo unico scopo era quello di divenire Big Boss, non come soldato, nè come patriota, ma solo, ed esclusivamente, come uomo; un uomo estraneo a se stesso, inconsapevole di chi è veramente, perché in un attimo, attorno a sè, non vede altro che la solitudine di colui che ha scoperto di essere solo una maschera, un nome, una finzione. Ed è solo in questa cinerea atmosfera che dalla “morte” dell’uomo nasceva, inesorabile, la leggenda.

Ricordare gli avvenimenti di Snake Eater è stato, per me, un piacevole esercizio di memoria. Un gioco profondo, piuttosto ricco di significati etici e morali, sempre presenti all’interno dei vari Metal Gear. Il rapporto tra Big Boss e il suo mentore, così come quello con EVA, si chiudono attraverso una carenza esistenziale nata dal vuoto profondo di una messa in scena. Realtà e apparenza giocano un ruolo fondamentale all’interno di questo titolo, che continuamente nasconde la vera umanità, celandola, imprescindibilmente, dietro la finzione e la menzogna. Forse non è un caso che i nomi dell’unità COBRA rimandino ad emozioni essenzialmente primarie; quasi come se queste emozioni fossero, a conti fatti, l’unica cosa reale al di sotto delle maschere.

“La vera solitudine è in un luogo che vive per sè e che per voi non ha traccia nè voce, e dove, dunque, l’estraneo siete voi” (L. Pirandello)

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