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Occhio Critico - Il Giappone non muore mai

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Avatar di Gianluca Arena

a cura di Gianluca Arena

Editor

Pubblicato il 15/05/2017 alle 00:00

Quando l’industria videoludica era in crisi profonda, nella prima metà degli anni ’80, furono loro a tirarla fuori dalle secche, laddove in occidente nessuno vi investiva più.
Allo stesso modo, fino a due generazioni di console fa (ai tempi di Playstation 2 e GameCube, per intenderci), avevano trainato il mercato con una serie di prodotti passati alla storia, che ancora oggi vengono considerati pietre miliari.
Eppure è bastata una generazione sfortunata, la scorsa, per dare fiato ai loro detrattori, fino a spingersi ad affermare che il Giappone, videoludicamente parlando, era morto.
E invece, ancora una volta, come un’araba fenice, il paese del Sol Levante si riprende, senza clamore, il posto che gli spetta: forse è giunta l’ora che tante false sibille si scusino con gli sviluppatori giapponesi.
 
Il periodo buio
La scorsa generazione di console, con l’exploit di Xbox 360, la scelta di Nintendo di puntare al famoso “blue ocean” e il pesante ritardo accumulato da Sony nei primi anni di vita di Playstation 3, sembravano aver messo una pietra tombale sulla supremazia giapponese in ambito videoludico: il fiorire di generi come gli sparatutto in prima persona e i titoli esclusivamente multiplayer, per non parlare dei giochi di ruolo di matrice occidentale, testimoniava, secondo molti, come il Giappone non si fosse saputo adattare ai rapidi cambiamenti del mercato.
Nella percezione della massa videoludica, allargatasi enormemente durante l’innaturale, lunghissimo ciclo di vita della settima generazione di console, il Giappone stava rapidamente scivolando dal ruolo di protagonista assoluto della scena a quello di stanco comprimario, incapace di innovarsi e di proporre idee che sapessero catturare il mercato americano e quello europeo.
Dissezionando gli annali videoludici e soffermandosi a guardare i giochi, che dicono molto dello stato di salute di un dato mercato, l’inizio di generazione fu avaro di soddisfazioni per i patiti del gaming made in Japan, ma non privo di titoli che sono passati alla storia del medium, tra cui è impossibile non citare Super Mario Galaxy, Metroid Prime 3 e Metal Gear Solid IV, giusto per fare qualche esempio, ma anche canti del cigno della generazione precedente, come il terzo e quarto capitolo della saga di Persona di Atlus e The Legend of Zelda: Twilight Princess.
A partire dal 2009, anno in cui la generazione di console entrò davvero nel vivo, aumentando la base installata e con gli sviluppatori che prendevano confidenza con gli hardware a disposizione, le critiche si sono fatte sempre più aspre, e una situazione di stallo in effetti sembra essersi palesata: sviluppare su PS3 non era esattamente semplice, per via di un hardware potente ma poco flessibile per gli sviluppatori, e la console ammiraglia di Nintendo, che pure vendeva benissimo (tanto da generare meme sui social), aveva un pubblico agli antipodi rispetto al concetto classico di videogiocatore incallito.
E allora, se escludiamo le produzioni portatili (sulle quali torneremo), Demon’s Souls, che diede il via ad una serie oggi amatissima, e Street Fighter IV, che non era perfetto ma ha avuto l’innegabile merito di riportare in auge i picchiaduro bidimensionali, il paese del Sol Levante arrancava, tra produzioni poco ispirate, budget limitati e tipologie di gioco stagnanti, divise tra l’azione pura e i clichè di JRPG tutti troppo simili tra loro.
Ma è proprio qui, che, dimostrando scarsa memoria storica, la stampa di settore (sì, è stata anche colpa nostra, ovviamente) ed il pubblico dimenticavano di fare esercizi di buon senso, come professava il maestro Trapattoni, e dicevano tutti “gatto” pur non avendolo nel sacco: come potevano un paio di anni bui oscurare quanto di buono aveva creato per decenni la scuola nipponica?
Quanta precipitazione c’era nell’affermare che il lato occidentale dell’industria, che pure stava innegabilmente crescendo, potesse sorreggere, da solo, la baracca?
In una sola parola, tantissima, e i primi segnali di quanto fosse grave l’errore di valutazione arrivarono già nel biennio 2010-2012, quando dal Giappone giunsero titoli di qualità cristallina come Super Mario Galaxy II, The Legend of Zelda Skyward Sword, Dark Souls, Xenoblade Chronicles e il mai troppo lodato Bayonetta.
Le sperimentazioni
Nel quadro generale, moltissimi (per non dire tutti…) hanno però tralasciato un mercato fondamentale per il Giappone, ovvero quello portatile, all’interno del quale, complici budget assai più contenuti e una maggiore libertà creativa lasciata ai team di sviluppo, la crisi avvertita in ambito casalingo non solo non c’è stata, ma ha anzi lasciato spazio ad una stagione di grandissimi successi, molti dei quali sono poi stati trasposti anche per le macchine maggiori.
Dal DS al 3DS, passando per PSP e, in misura minore, per la sfortunata PSVita, parliamo di centinaia di giochi di grandissima qualità, molti dei quali nuove proprietà intellettuali, la cui quasi totalità proveniva dal paese del Sol Levante.
Tra sistemi di controllo innovativi (la rivoluzione tattile di Nintendo ha fatto storia) e l’assenza di compromessi garantita dalle potenzialità tecniche delle due macchine portatili di Sony (entrambe all’avanguardia al momento del lancio), la scena portatile ha visto un fiorire di nuove tipologie di giochi, di spin off spesso migliori della serie originale, di seguiti spirituali, e non, che hanno racchiuso il meglio del genio nipponico.
Nel frattempo, sulle console da salotto, un’intera generazione di sviluppatori con gli occhi a mandorla faticava a trovare il suo posto, schiacciata dall’obsolescenza (spesso più percepita che reale) di alcuni generi-caposaldo come i giochi di ruolo a turni, i platform e le avventure.
Una carrellata rapida e senza alcuna pretesa di esaustività potrebbe comprendere titoli come Mario & Luigi: viaggio al centro di Bowser, tutti e tre i Castlevania bidimensionali, i due Advance Wars, New Super Mario Bros., The world ends with you, Dragon Quest IX, l’intera serie de il Professor Layton, Radiant Historia ed Elite Beat Agents per quanto concerne il DS; PlaystationPortable, dal canto suo, potrebbe rispondere con Metal Gear Solid Peace Walker (l’ho rigiocato recentemente e continuo a chiedermi come sia stato possibile infilare un tale capolavoro in un disco UMD), Jeanne d’Arc, Crisis Core Final Fantasy VII, Valkyria Chronicles II, l’eccellente remake di Tactics Ogre, ribattezzato Let us cling together, quello dedicato a Castlevania Dracula X, Kingdom Hearts Birth by Sleep, e i tre Patapon, che, da parte mia, spero di rivedere presto in edizione rimasterizzata.
Se crisi vera fosse stata, quindi, questi e tantissimi altri titoli di grande spessore non avrebbero fatto capolino per anni sulle console portatili di Nintendo e Sony, e questo spinge a chiedersi cosa frenasse allora gli sviluppatori giapponesi in altri campi: se dovessi scommettere, direi la lentezza cronica nello sviluppo, problema a tutt’oggi persistente ma comunque in via di miglioramento, che in ambito portatile incide assai meno che in quello casalingo, e l’affezione, a livello di “feticcio”, verso certi generi ludici, dei quali il grande pubblico occidentale riteneva di poter fare a meno, salvo poi ricredersi qualche anno dopo.
Dove, invece, la produzione giapponese ha visto un calo drastico, negli anni che hanno portato all’attuale generazione di console, è stato sicuramente nel numero delle uscite, e qui ci colleghiamo ai tempi di sviluppo biblici citati poc’anzi.
Nel mercato odierno sembra esserci sempre meno spazio per team di sviluppo che impiegano anni a completare i loro prodotti: The Last Guardian era diventato una barzelletta, ad un certo punto, e, personalmente, ritengo che Gran Turismo non abbia perso milioni di fan non per un calo qualitativo della serie, quanto piuttosto per l’atavica lentezza dei suoi tempi di sviluppo, che hanno lasciato milioni di appassionati a digiuno di titoli della serie per anni, un gap in cui Turn 10 si è inserita brillantemente con la sua serie Forza.
La rinascita
Gli ultimi tre o quattro anni hanno segnato un ritorno sulla cresta dell’onda del Giappone videoludico, con picchi clamorosi se limitiamo l’analisi agli ultimi dodici mesi: la rinascita di Fire Emblem nel 2013 ha fatto da apripista a titoli come Super Smash Bros. per WiiU, al secondo episodio di Dark Souls, a Bayonetta 2, Mario Kart 8 e Bravely Default, tutti dell’annata successiva.
L’attuale generazione di console, con lo strapotere di PS4, ha rimesso il Giappone al centro del disegno più ampio del mercato videoludico, favorendo una marea di produzioni e, soprattutto, gli investimenti, a lungo negati durante il lustro precedente; se a questo si aggiunge una nuova e talentuosa generazione di game designer, ecco che il presente (ed il futuro) non possono che tornare ad essere rosei.
E così si arriva all’ultimo biennio, costellato di titoli di portata straordinaria, che hanno costretto tantissimi detrattori a rimangiarsi parole proferite con troppa leggerezza: il 2015 è stato l’anno del quinto, tormentato, ma indimenticabile episodio di Metal Gear Solid, di quell’esclusiva scintillante che è Bloodborne, del ritorno di Pro Evolution Soccer a livelli qualitativi notevoli, di Super Mario Maker, del sottovalutato ma monumentale Xenoblade Chronicles X e dell’arrivo in occidente di una delle migliori visual novel degli ultimi anni, Steins;Gate.
L’anno scorso la dose di titoli indimenticabili è anche aumentata: da Dark Souls III all’eccellente riproposizione di Odin Sphere, dall’enciclopedico Fire Emblem Fates al successo insperato di Final Fantaxy XV, passando per il quasi vaporware The Last Guardian e Pokemon Sole e Luna, divenuti fenomeno di massa in pochissimo tempo.
Il resto è gloriosa cronaca delle ultime settimane: l’anno in corso è tutto targato Giappone, se è vero che tra Breath of the Wild, Persona 5, Nier Automata, Nioh, Yakuza 0, Puyo Puyo Tetris, Gravity Rush 2, Tales of Berseria e le raccolte dedicate a Kingdom Hearts, Danganronpa e Zero Escape, a moltissimi giocatori non bastano più le giornate da ventiquattr’ore.

Se si vuole che il mercato videoludico continui a prosperare, producendo miliardi di fatturato e coinvolgendo fette sempre più larghe della popolazione, non si può prescindere dall’apporto dei team di sviluppo giapponesi, la cui visione del medium è profondamente diversa da quella di noi occidentali e, proprio per questo, preziosa per mantenere sempre un’offerta variegata e meno standardizzata possibile.

Se è innegabile che la scorsa generazione di console abbia segnato un periodo poco brillante per il paese del Sol Levante, è pur vero che in troppi hanno cantato il “de profundis” con troppa fretta: fortunatamente, questo 2017 sta smentendo anche i più scettici, e sta regalando agli appassionati una serie di prodotti di eccezionale qualità.

E adesso scusate, ma devo andare a spendere qualche altra ora a girovagare per le lande di Hyrule.

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