Ci sono ricorrenze che fanno male più di altre. Ci sono date che non segnano soltanto un anniversario, ma che aprono di nuovo ferite mai guarite. L’1 settembre 2015 usciva Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.
Oggi, dieci anni dopo, è impossibile non guardare a quel titolo senza percepire un senso di incompiutezza, quasi fosse un’opera d’arte mutilata, un affresco geniale lasciato a metà da un pittore che, invece di completarlo, è stato cacciato dal suo stesso atelier.
La verità è che MGS V (che trovate su Amazon, a prezzo davvero ridicolo) è ancora, nel 2025, uno dei giochi più controversi mai realizzati. Non perché fosse mediocre (al contrario, dal punto di vista ludico resta un punto di riferimento assoluto) ma perché porta con sé una contraddizione che continua a far discutere.
È allo stesso tempo il vertice del gameplay stealth e l’abisso narrativo più doloroso della saga. È un titolo che ha fatto gridare al miracolo i critici, e allo scandalo i fan più legati alla dimensione cinematografica della serie. È, insomma, un capolavoro che non smette di sembrare un’occasione mancata.
Il sogno e il trauma
Per comprendere il valore simbolico di questo anniversario, bisogna ricordare il contesto. MGS V non nasce come un gioco, ma come una promessa. Una promessa gonfiata dalle dichiarazioni di Hideo Kojima, dai teaser mascherati dietro il logo “Moby Dick Studio”, dai trailer che sembravano cortometraggi hollywoodiani.
Ogni frame, ogni inquadratura, era studiata per alimentare il mito. E i fan, fedeli come sempre, aspettavano con la pazienza di chi sa che l’attesa verrà ricompensata.
Ma quella ricompensa non arrivò mai. O meglio: arrivò a metà. Perché se da un lato The Phantom Pain ci mise tra le mani un gameplay rivoluzionario, capace di reinventare lo stealth con una libertà mai vista prima, dall’altro ci lasciò senza la conclusione che avevamo atteso.
La missione 51 cancellata, il famoso “Chapter 3” mai pubblicato, le trame rimaste sospese come fili nel vento: tutto questo non è soltanto un dettaglio per appassionati maniacali, ma la prova concreta di un gioco mutilato.
E la mutilazione, nel caso di MGS V, non è una metafora. È la conseguenza diretta di una guerra fredda tra Kojima e Konami che, col senno di poi, non ha avuto vincitori, ma soltanto sconfitti.
Dieci anni fa, il racconto dominante era semplice: Kojima il visionario, Konami il mostro senz’anima. Da un lato il genio creativo, dall’altro il colosso aziendale che pensa solo ai conti. Una narrazione che ha fatto comodo a tutti, ma che, col tempo, si è rivelata più complessa.
Perché se è vero che Konami ha chiuso brutalmente il rapporto con uno dei suoi autori più iconici, è altrettanto vero che Kojima aveva perso ogni freno, convinto di poter spendere risorse illimitate in un progetto sempre più titanico e ingestibile.
MGS V è figlio di questa tensione. È l’ultimo canto del cigno di un autore che sognava di creare un’opera totale, e di un’azienda che non era più disposta a tollerare i suoi deliri. Il risultato è un gioco straordinario sul piano del design e incompiuto sul piano della narrazione. Un monumento all’ambizione e una lapide alla misura.
Dieci anni dopo, la verità scomoda è che hanno avuto torto entrambi. Konami per aver reciso con brutalità il legame con un autore che le aveva garantito gloria e denaro per vent’anni. Kojima per non aver mai saputo (o voluto) trovare un equilibrio tra visione e concretezza.
La storia imperfetta
Eppure, ridurre MGS V a una vicenda di retroscena aziendali sarebbe un errore. Perché resta un gioco unico, che ancora oggi brilla sul piano ludico. La libertà d’azione offerta al giocatore, la possibilità di affrontare ogni missione con approcci radicalmente diversi, l’equilibrio tra tensione stealth e creatività tattica: tutto questo rimane ineguagliato. Non è un caso che molti lo considerino il punto più alto mai raggiunto dal genere.
Ma proprio questa eccellenza rende ancora più dolorosa la sua incompletezza narrativa. Perché se il gameplay era da 10, la storia non andava oltre il 6. E per una saga che aveva costruito la propria identità su cutscene chilometriche, monologhi teatrali e personaggi larger than life, questo squilibrio era insostenibile.
La verità è che MGS V ha tradito se stesso. Ha tradito il DNA della serie. Ha sacrificato la componente narrativa — cuore pulsante della saga — in nome di una libertà ludica che, per quanto esaltante, non poteva reggere da sola il peso di un’eredità così ingombrante.
Oggi, celebrarne il decennale significa accettare questa ambivalenza. MGS V è un fantasma che ancora ci perseguita. Il fantasma di un dolore, appunto, di una promessa non mantenuta. È il titolo che ha chiuso la saga di Kojima lasciando tutti insoddisfatti, e che al tempo stesso ha fissato un nuovo standard per il gameplay moderno.
E forse è proprio per questo che, dieci anni dopo, siamo ancora qui a discuterne. Perché MGS V non è solo un gioco, ma un trauma collettivo. Una ferita aperta che ci ricorda che nemmeno i videogiochi, per quanto sofisticati, sono immuni dalle logiche di potere, dagli ego smisurati, dai compromessi dell’industria.
Nel frattempo, il mondo è andato avanti. Kojima ha fondato il suo studio indipendente, ha pubblicato Death Stranding e relativo sequel, ha continuato a costruirsi l’immagine di autore-divinità che non sbaglia mai. Konami, dal canto suo, ha provato a reinventarsi con i pachinko, le collection e i remake.
Ma la verità è che, dieci anni dopo, nessuno ha colmato davvero il vuoto lasciato da The Phantom Pain.
Perché MGS V non è stato solo un gioco: è stato un addio. È stato l’ultimo atto di un matrimonio logoro tra autore e azienda, ma anche l’ultima volta in cui abbiamo potuto toccare con mano la follia creativa di un Kojima ancora legato alla saga che l’aveva reso celebre.
Ecco perché oggi, 1 settembre 2025, non possiamo limitarci a celebrare. Dobbiamo ricordare, ma anche riflettere. Perché The Phantom Pain resta un monito: ci ricorda che la grandezza può andare di pari passo con la frustrazione, che il genio può convivere con l’incompiutezza, che il videogioco come medium ha ancora tanto da imparare su come bilanciare ambizione e concretezza.
Il decennale di un fantasma
Dieci anni dopo, MGS V è ancora qui con noi. Non come un titolo che si rigioca con leggerezza, ma come un fantasma che continua a bussare alla porta della memoria collettiva. È il simbolo di un’epoca di transizione, di un medium che cercava di diventare adulto e che, nel tentativo, ha lasciato cicatrici.
E forse è giusto così. Perché le opere perfette si dimenticano in fretta. Quelle imperfette, invece, ci perseguitano per sempre. E MGS V, con il suo dolore fantasma, è destinato a rimanere inciso nella storia non solo come un grande gioco, ma come la rappresentazione più pura e crudele dell’ambivalenza del videogioco moderno.
Per questo, oggi non celebriamo un compleanno. Oggi ricordiamo un funerale. Il funerale dell’ultimo Metal Gear di Kojima, e il funerale delle nostre illusioni di videogiocatori. Un decennio dopo, il dolore è ancora lì. Un dolore fantasma, certo. Ma sempre vivo.